Mercoledì 9 agosto 2006 – deserto del Kalahari, Sudafrica
Ore 15.45
Mancano 10 chilometri prima di raggiungere il campo tendato di Klieliekrankie, siamo in viaggio dalle 8 del mattino, da quando abbiamo abbandonato le tende del Grootkolk camp. Ci siamo lasciati dietro circa 200 chilometri di sabbia, e molta di questa si è trasferita dentro la nostra Landcruiser. Corriamo su una vecchia carovana arrugginita che, se tutto andrà bene, ci dovrà portare fino a metà della Namibia, dalle parti di Sesriem, per poi ridiscendere con calma verso Città del Capo.
La guida è a sinistra, lo sterzo sembra unto con del vinavil, tanto è duro, la lancetta del contachilometri non si muove dallo zero, il motore emana un frastuono infernale, c’è il mangiacassette ma non abbiamo cassette, e nel mezzo del deserto la radio riesce soltanto a gracchiare.
Il morale è alto, nonostante tutto. Veniamo da tre giornate indimenticabili, nella fortuna e nella sfortuna, è il pegno che l’Africa chiede a chi l’affronta in libertà.
Due giorni prima
La mattina del 6 agosto, due giorni dopo essere atterrati a Johannesburg, eravamo nei pressi di Derdepoort, al confine tra Sudafrica e Botswana. Secondo il nostro programma casereccio, avevamo due giorni di tempo per raggiungere il limite meridionale del deserto del Kalahari, e potevamo scegliere tra due alternative: un percorso più lungo, tutto in territorio sudafricano, e quindi con strade che, forse, erano asfaltate; oppure un giro più corto, che comportava l’attraversamento di parte del Botswana meridionale, con tutte le incertezze del caso. Nei mesi precedenti avevo studiato con cura l’itinerario, ma tutte le mie convinzioni erano state spazzate via dal consiglio spassionato di chi ci aveva affittato la macchina, in quell’officina maleodorante di Johannesburg: “Potete passare tranquillamente dal Botswana, con questa macchina andate ovunque”, aveva detto Matt, che riversava molta fiducia in noi, e ci offriva un caffè bollente mentre i suoi meccanici tentavano di rianimare la nostra macchina.
Passare dal Botswana significava, innanzitutto, attraversare una frontiera africana, dove lo scorrere del tempo è relativo, in secondo luogo bisognava rendersi conto che quei pallini, che sulla cartina sembravano città di medie dimensioni, in verità non erano altro che una manciata di capanne di sabbia e fango.
Così ci ritrovammo a macinare chilometri e chilometri, riversando le nostre speranze di trovare un letto sempre sul pallino successivo di quella maledetta cartina, e le nostre speranze fallivano ogni volta, miseramente, davanti al nulla. Era già buio quando finimmo a vagare nelle due vie che animavano Tshabong, avamposto dimenticato ai limiti del Kalahari, ma come capita spesso in Africa, quando sei ormai rassegnato a condividere in quattro un letto da una piazza e mezzo, senza possibilità di lavarsi e di mangiare un boccone, impari che a tre chilometri di distanza c’è un alberghetto dignitoso, con ristorante al piano terra, e non ti capaciti di avere addirittura il bagno e la televisione in camera.
La mattina seguente aggrediamo 70 chilometri sulla sabbia, ci piantiamo, riusciamo ad uscirne, impieghiamo 3 ore per arrivare all’ingresso del parco del Kgalagadi, per poi sentirci dire che oltre quel punto ci sono 300 chilometri di dune e nulla più e che gli ultimi 4 coglioni con le facce simili alle nostre che ci hanno provato li stanno ancora cercando.
Si torna indietro, si dorme ancora a Tshabong.
La mattina seguente ripartiamo all’alba, restando in macchina fino al tramonto per poi arrivare a Grootkolk, proprio da dove siamo ripartiti questa mattina.
Mercoledì 9 agosto 2006 – deserto del Kalahari, Sudafrica
Ore 15.45
Quindi oggi siamo con il morale alto, perché abbiamo recuperato il tempo perduto, perché finalmente arriveremo alla meta con il sole ancora alto e ci potremo riposare guardando il panorama, perché nel baule abbiamo un po’ di carne di kudu da fare ai ferri e una buona bottiglia di Shiraz da sorseggiare al tramonto.
“Che strano odore”. Dico a Cristian, impegnato al volante.
Se c’è odore di plastica bruciata in mezzo al deserto, non ci sono dubbi, la causa puoi essere soltanto tu.
Facciamo sì e no altri 50 metri, dal cofano comincia a uscire fumo.
La macchina si spegne. Il Kalahari è abitato da un discreto numero di leoni, nonché leopardi, ghepardi e iene, oltre ad animali pacifici. Non bisognerebbe mai uscire dall’auto al di fuori dei campi tendati, tuttavia non abbiamo troppe alternative, almeno uno sguardo al motore va dato, magari basta aggiungere un po’ d’acqua in qualche anfratto. Le ragazze fanno il palo, noi apriamo il cofano, sembra un film, i cavi della batteria si stanno sciogliendo davanti ai nostri occhi, partono scintille, guardiamo il motore come si guarda un alieno atterrato davanti a noi, un qualcosa di mai visto prima, restiamo in silenzio, a bocca aperta, chiudiamo il cofano e decidiamo di aspettare qualche minuto, facciamo raffreddare la situazione prima di metterci le mani. Imprechiamo alla malasorte.
Ore 16.15
Sui cellulari non compare una tacca, ci mancherebbe, il satellitare non riesce nemmeno ad indicarci la strada. Pensiamo a come fare quando passerà qualcuno, lasceremo la macchina lì dove si trova, ci faremo portare al campo e domani proveremo di tornare con un meccanico. Questo è il nostro piano operativo.
Ore 16.30
Non è passato ancora nessuno, ma questo ci può stare, non è che ci sia un gran traffico da quelle parti.
Torniamo a visionare il motore, scintilla ancora, abbiamo due batterie, tentiamo di staccare i cavi da una e metterli nell’altra, tra gli scoppi, il caldo e il pensiero remoto che ti possa saltare un leone nella groppa, tutto ciò che facciamo sembra già portarsi dietro cattivi presagi. La macchina non dà segnali di vita. È morta.
Ore 17.00
Le imprecazioni si sprecano, ma ci si ride anche su, ogni tanto pensiamo al motore, ma ormai abbiamo abbandonato l’idea di aggiustarlo, dobbiamo soltanto aspettare la prima macchina. Siamo certi che qualcuno passerà. L’ottimismo non ci abbandona.
Ore 17.30
Qualcuno è passato, per la verità, uno gnu solitario, animale simile ad una vacca magra e scura, un tantino striata sui fianchi, cercava una pozza in cui bere e un po’ di erba fresca da mettersi in pancia.
Ore 18.00
Non è passato nessuno. Quaggiù siamo in pieno inverno, tra mezz’ora farà buio, a quel punto le speranze che qualcuno si faccia un giro da queste parti saranno veramente poche. Per fortuna è ancora caldo. Ma lo sarà per poco.
Ore 19.00
Non è passato nessuno. È buio, indossiamo felpe e camice, la temperatura comincia a scendere. Lo sconforto, invece, cresce.
Ore 19.30
Sanno che siamo entrati nel parco nazionale e sanno che stasera dovevamo raggiungere quel campo, per cui non ci vuole molto a capire che siamo bloccati da qualche parte.
“Questo parco è grande come tutto il nord Italia”. Rispondo.
Ore 21.00
Mangiamo qualche cracker e un paio di biscotti, è ancora presto per addentare le bistecche crude di kudu.
Ore 22.00
A due alla volta andiamo in bagno, abbiamo deciso che il bagno è attaccato alla jeep, si fa tutto con la mano ben stretta sulla portiera, pronti a saltare in auto, è buio pesto, non vedi cosa ti può arrivare addosso. Abbiamo le torce elettriche, centelliniamo le pile.
Ore 22.30
Siamo chiusi in auto da 6 ore e mezza, cui si aggiungono le 8 precedenti, abbiamo la prima crisi di riso isterico, fin quasi a piangere, poi, all’improvviso, cadiamo in silenzio e imprechiamo al nulla. Raccontiamo quello che ci sta accadendo come se fosse già passato, pensiamo a quando, un giorno, lo racconteremo ai nostri figli, oppure al bar.
Oggi è mercoledì, penso, domani a Medicina c’è il mercato, se fossi a casa dovrei stare attento a dove parcheggio la macchina, altrimenti me la ritrovo sul carro attrezzi.
Ore 23.30
Passano tre gazzelle.
Ore 00.30
È freddo, abbiamo indossato i giubbotti, non riusciamo a dormire, la vecchia carovana è scomoda, entrano spifferi dappertutto. A volte ridiamo, a volte facciamo riflessioni macabre o assurde, come quando pensiamo di incamminarci a piedi, e vada come vada.
“Dieci chilometri è come andare a Castello”. Penso.
Ore 01.30
Cristian propone di aprire la bottiglia di vino e le sei birre in lattina, così da stordirci e far passare meglio le ore. Sembra un’idea geniale, ma il bere comporta l’evacuare, e meno si va in bagno meglio è.
Ore 02.30
Tutto attorno c’è un silenzio surreale, nessuno parla, anche se sappiamo benissimo di essere tutti svegli. Ormai saremo prossimi ai 0 gradi, sono gli scherzi del deserto, da 30 a 0 gradi in 24 ore, apriamo le valigie e tiriamo fuori il possibile, cappelli, sciarpe, ci bardiamo con quello che troviamo, la carrozzeria e i finestrini sono gelati.
Ore 03.30
Passano due springbook e un altro gnu, o forse è sempre quello.
Ore 04.00
Altro giro in bagno.
Ore 04.30
Ogni tanto odo un lamento, temo sia Giorgia, temo che le possano venire i geloni ai piedi, lei soffre il freddo, le diciamo di mettersi un altro paio di calzini, ma lei non vuole.
Ore 05.30
Penso, tra me e me, che l’Africa, affrontata in jeep da quattro medicinesi senza troppe esperienze, sia un ostacolo insormontabile. Nel delirio rimpiango quei villaggi turistici che ho sempre evitato, adesso vorrei tanto fare un trenino con un animatore, al ritmo di samba, gradirei un piatto di maccheroni al ragù, mi mancano le alghe dell’adriatico, il casino delle nostre piste da sci.
Ore 06.30
Siamo rinchiusi in auto da 14 ore, più le 8 precedenti, il sole sta tornando fuori. È ancora un freddo cane, ma la luce è speranza, sappiamo che prima o poi finirà.
Ore 07.00
Siamo convinti che si tratti di minuti, soltanto pochi minuti.
Ore 07.30
Passano uno gnu, sempre lui, e venti gazzelle.
Ore 08.00
Ancora nulla, mangiamo qualche biscotto, ci togliamo i primi stracci di dosso.
Ore 09.00
Ancora nulla. Sappiamo che finirà, ma sembra veramente assurdo questo perdurare della nostra agonia.
Ore 09.30
Ancora nulla. Ci togliamo altri vestiti, siamo stremati, sporchi, affamati, non ne possiamo più.
Ore 10.00
Da 18 ore, più le otto precedenti, siamo rinchiusi nell’abitacolo. All’orizzonte compare la sagoma di una macchina.