Ho speso i miei primi 33 anni a cercare un posto nel mondo. È normale, bisogna saper rispondere alla domanda “Ciao, che fai?”. Confondevo l’essere con il fare, direbbero.
Quello che è accaduto nel mentre credo sia più o meno quello che succede a tutti. Un’infanzia spensierata che accoglieva tutto, un’adolescenza incasinata che desiderava tutto, una presunta età adulta che non accoglieva più niente e desiderava male.
Da bambino ragionavo, in realtà, su quanto fosse strano che uno ‘fosse’ un mestiere. Più naturale era ‘fare’ qualcosa e poi ‘essere’, per esempio, umano. “Sono un avvocato”, “Sono un medico” sentivo dire. Strano, ma ho smesso di chiedermelo. Dovevo iniziare a pensare al mio posto nel mondo.
Ma come trovarlo?
Per fortuna non ci hanno lasciati soli e hanno scritto un manuale. Sono stati così bravi che lo potevi trovare ovunque. In TV, nei film, sui giornali, in famiglia, al bar, tra gli amici e soprattutto, da quando esiste, online.
‘Un posto nel mondo, secolo XXI’ — istruzioni per l’uso:
Trovare valori profondi in cui credere e dimostrare quanto siano più giusti di altri, anche se simili.
Sapere tantissime cose interessanti per sostenere conversazioni intelligenti allo scopo di competere con esemplari dello stesso genere e flirtare con quelli di genere opposto.
Viaggiare il più possibile in posti possibilmente poco conosciuti o lontani.
Fare esperienze uniche, originali ed esclusive. Dal 2008, postarle sui social.
Trovare un lavoro socialmente riconosciuto e pagato ovviamente il più possibile, anche quando è già pagato tanto.
Diventare il più possibile noto/a. Dal 2012, contare i follower su Instagram.
Diventare il migliore in qualcosa ed essere riconosciuto come tale.
Possedere molte cose costose e/o esclusive.
Avere un fisico tonico e misure preferibilmente abbondanti.
Avere una relazione solida e sicura che duri tutta la vita.
Fare una famiglia felice tra i 27 e i 35 anni. Oltre troppo tardi. Prima troppo presto.
Scegliere almeno 3 punti di cui sopra e farne la propria ragione di vita.
Sostenevo, davanti agli altri, come diverse di queste istruzioni fossero assurde. Ammetto però che alcune di esse avrebbero avuto una sottile ma potente influenza nella mia ricerca.
Quindi ho studiato, ho letto, ho guardato film, ho scritto, ho suonato, ho creato, ho vissuto all’estero, ho trovato un lavoro, ho cambiato lavoro, ne ho perso uno e ne ho creato un altro, ho discusso, ho avuto ragione, ho avuto torto, ho giudicato, ho escluso, ho selezionato, ho dimostrato, ho scopato, ho litigato, ho fatto l’amore, ho amato, ho odiato, ho viaggiato.
Senza accorgermene, ero diventato pesante. Così pesante che stavo facendo un grosso solco in tondo. Il mio posto nel mondo era li vicinissimo, lo sentivo, ma, nonostante tutto il mio darmi da fare, non arrivava mai come credevo avrebbe dovuto essere e mi ritrovavo sempre al punto iniziale, solo un po’ più in basso.
Più questo solco diventava profondo, più scorgere altro intorno diventava difficile, impedito dalle pareti che, senza rendermene conto, mi stavo da solo costruendo.
Non ero sicuramente quello messo peggio. Intorno a me, per quello che vedevo, tutti stavano così. Nei loro solchi, stanchi dal loro girare in tondo e appesantiti. Dalle loro opinioni, dalle loro paure e dalle loro (in)sicurezze.
Molti si accontentavano. Altri ti urlavano dal solco di averlo trovato, il posto nel mondo. Se, curioso, chiedevi com’era, ti farneticavano risposte a volte arroganti o dogmatiche, a volte un tantino idealistiche. Chissà se era vero o se la paura di non averlo ancora trovato li portava a illudersi di averlo fatto, mi chiedevo.
Ogni tanto alzavo lo sguardo da quelle pareti e guardavo le stelle. Piccole, ma allo stesso tempo giganti. Chissà come fanno a stare lì per aria leggere. Ma lo riabbassavo subito per la paura di perdere di vista il mio posto nel mondo, fumoso come a luglio il vapore d’asfalto.
Il mondo rimasto di sopra non mi interessava più tanto. Succedeva solo che ogni tanto scorgessi, in alto sopra la mia buca, qualcuno passare. Li sentivo ridere mentre correvano tra un solco e l’altro, per il prato che io non riuscivo più a vedere. Pensavo a quanto superficiali a volte le persone possano essere. Perdere tempo così con un posto nel mondo da trovare.
Mi ero abituato. A forza di girare in tondo il solco era diventato la mia vita. E ci stavo pure bene. La pesantezza non la percepivo più così tanto. In realtà, me ne ricordavo solo quelle poche volte che, improvvisamente, mi sentivo leggero. Succedeva in qualche raro momento creativo, in un pranzo al mare di primavera, quando senti di nuovo la sabbia sotto i piedi scalzi, o in una coccola tra le coperte dopo una giornata dimmerda.
Poi, praticamente tutti i weekend, mi dedicavo alla LMI — Leggerezza Momentaneamente Indotta. Pregavo il dio dei Gin Tonic e praticavo l’antica arte delle 4:20. Leggerezza garantita fino alla mattina dopo, ma tanto il venerdì successivo sarebbe arrivato presto.
Tutto procedeva tranquillo e anestetizzato.
Un giorno poi, d’improvviso, successe. La faccio breve. Lei mi lasciò, da un giorno all’altro. Si lo so, succede. Ma quella volta il mio cuore, rompendosi, fece un rumore talmente forte che le pareti del mio solco crollarono di botto. Solo macerie intorno a me.
Altre volte, per varie ragioni, era successo. Piccoli cedimenti che, con un colpo alla botte e uno al cerchio, ero sempre riuscito a tenere in piedi. Questa volta era diverso. Mi era crollato tutto.
Agli altri, allertati dal rumore, dicevo che non era successo niente. Tutto sotto controllo. Avrei rimesso tutto a posto. La verità è che ero frastornato e traboccante di un dolore nuovo.
Nevroticamente cominciai subito a scavare un altro solco, tra i frantumi della mia vita. Giravo confuso su me stesso nella speranza di ricavare un altro piccolo spazio dove potermi sentirmi di nuovo protetto forse.
Non aveva senso. Ero troppo poco lucido e stanco. Nel profondo sapevo che era inutile pretendere di capire ora. E così, per la prima volta dopo tanto tempo, decisi di fermarmi a respirare, sdraiato nella polvere del mio solco, a guardare le stelle.
Dopo tanto tempo, stavo lasciando dello spazio. Alla vita di accadere, senza pretendere nulla. Al silenzio di parlare.
Rimasi così un po’, non so con precisione quanto. Forse una settimana o forse mesi.
Poi d’improvviso lassù in alto, notai due occhi vispi che mi osservavano. Forse era uno di quelli che ogni tanto intravedevo correre nel mondo di sopra. Mi guardava sdraiato sul fondo del mio solco. Gli chiesi scocciato chi fosse. Mi rispose che aveva poca importanza e che era contento che finalmente l’avessi notato.
Fece una breve pausa senza smettere di guardarmi ed esclamò che finalmente era successo. Cosa? Chiesi. Finalmente è crollato. Raccontami come è successo, rispose.
Intendeva il solco? Come cazzo si permetteva e da quanto tempo stava li ad osservarmi? Senza rendermene conto però cominciai a raccontargli tutto quanto. Avevo bisogno di lamentarmi. La vita era ingiusta e non lo meritavo dopo tutti quegli sforzi. Perché succedono queste cose?! Mormorai.
Mi guardò con l’aria di chi aveva compreso perfettamente e disse che queste cose servivano a far crollare il solco. Che i solchi prima o poi, per un motivo o per un altro, sono destinati a crollare, tutti quanti, anche i più solidi. Non siamo fatti per i solchi ma per i prati, sorrise. É una fortuna che ti sia successo. Sei un senza-solco ora.
Io non volevo essere né sapere cosa fosse un senza-solco. Che cazzo stava dicendo. La faceva facile. Non aveva idea di quanto fossero importanti lei e il mio solco. Chi sarei stato senza? Che cazzo ne sapeva lui! Urlai.
Mi guardò calmo e rispose di non preoccuparmi. Su al prato, quelle cose non avevano più tanta importanza ma, per ricordarlo, dovevo prima risalire.
Era vero, avevo dimenticato com’erano i prati.
Vedi, disse, la maggior parte delle persone oggi diventa solo vecchia, non grande. Grande diventi se crescendo torni a giocare. Il primo passo per farlo è rendersi conto di essere un sasso. Quasi tutti sono come sassi, mi spiegò. Se tirati in un torrente vanno a fondo pesanti, ansiosi di trovare il loro posto tra gli altri sassi. Se si spostano, lo fanno di poco, urtandosi l’un l’altro e facendo tanto rumore. Bisogna imparare ad essere foglia. Bisogna saper fluire senza la certezza di sapere dove si verrà trasportati. Bisogna tornare ad essere leggeri.
D’improvviso percepì quanto ero diventato pesante. E ancora sdraiato, mi accorsi di che buco profondo avevo scavato negli anni. Come si diventa leggeri? Domandai stremato.
Devi imparare a prenderti meno sul serio, mi spiegò. Credere ad A o B è diventato ciò che sei e, probabilmente, ciò che fai. Ma sei sicuro di essere tutto qui, chiese sorridendo. La differenza tra le cose che credi e quelle che cominci a conoscere è abissale. La conoscenza riguarda il cuore, non la testa. Non è certa. Ha a che fare con l’intuizione. Oggi non facciamo più caso all’intuizione. Il solo sapere invece giudica le cose e diventa peso lui stesso, concluse.
La verità, lo ammetto, era che quelle parole risuonavano in me in un modo strano, profondo. O forse non erano nemmeno le parole ma la leggerezza che in esse veniva trasportata.
Disse di non sforzarmi a capire ma lasciare che le cose risuonassero quanto dovevano. Improvvisamente, quando sarebbe stato il momento, avrei potuto ritrovarmi a intuire in una maniera nuova, precisò. Questione di un click, disse.
Era difficile seguirlo ma ero incantato da quello sguardo.
Ricordati, la paura è ciò che ti rende pesante. Finché sarai pesante sarà difficile amare intensamente la vita. La paura è l’antitesi dell’amore. L’accoglienza invece è la sua condizione necessaria, disse. Quando riusciamo profondamente ad accogliere, nonostante tutte le paure, scopriamo il potere dell’abbandonarci, del non dirci più cosa dobbiamo credere o chi dobbiamo diventare per riuscire finalmente a volerci bene. Riemerge una sorta di potente fiducia nella vita, che era sempre stata dentro di noi. Sepolta sotto tutto quello che credevamo di (non) valere.
Mi fissò profondamente negli occhi. Che mi mise a disagio. Non siamo abituati a tanta profondità. Il lavoro di un senza-solco ora è vedere, vedere da sè, sussurrò. Non credere a delle misere parole. Inizia ad accorgerti di tutte le pareti che hai costruito e sorridi, non fare alcuno sforzo per ricostruirle o abbatterle completamente. Semplicemente considerale. Il resto lo intuirai. Sai molto di più di quello che credi se impari ad ascoltare, concluse.
Mi guardai attorno, disteso sul fondo del mio solco distrutto. Avevo 33 anni. Vedere da sé diceva. Io vedevo solo macerie e polvere intorno a me. Poi guardai meglio e vidi un debole raggio di sole venire dal prato, entrare da una crepa ed accarezzarmi il viso.
Ero triste ma un sorriso stava da solo trovando spazio tra le mie guance. Vidi anche quello.
Click.
Rialzai lo sguardo, lui non c’era più.
Dimmi almeno come ti chiami, urlai.
Sergio, udì da lontano, ma su al prato mi chiamano Sè.