Il tuo collo sottile
“Mi piace il tuo collo sottile e quella vena lì che pulsa quando parli”
Un complimento inusuale, ma notevole, anzi è stato il miglior complimento di sempre, forse perché lavorando tutti i giorni su corpi esanimi sappiamo apprezzare più di chiunque altro un corpo caldo con un sistema circolatorio attivo e funzionante. Quanto è bello il rumore del cuore, quel continuo pompare, instancabile e incessante, tanto da sembrare eterno – ma non lo è.
La gente non lo capisce questo lavoro, gli fa ribrezzo. Sono tutti belli, performanti: lavorare, fatturare e via aperitivo. Sono tutti felici, ma incazzati col più debole, fanno palestra, si vestono bene e via a fare il brunch la domenica mattina.
Alla morte non ci pensa mai nessuno, pare quasi che non esista. Non esiste il dolore fisico - Hai mica l’oki in borsa? - e men che meno la quello psichico - Va tutto alla grande!
Strano davvero: un mondo di vivi entusiasti e felici, che a me paiono solo zombie rincoglioniti.
Io coi morti ci lavoro.
Preparo le salme: ‘toeletta mortuaria’ si chiama tra gli addetti ai lavori e nello specifico implica lavare, disinfettare, massaggiare, vestire e truccare un cadavere.
Se lo fai per scelta, come nel mio caso, è un bel lavoro; è un bel lavoro perché è un atto d’amore che trovo dovuto. È un atto d’amore che preserva la dignità umana sino alla fine, anche se il resto delle persone preferirebbe voltarsi dall’altra parte e fare finta di niente.
L’obiettivo è restituire alla famiglia una salma il più possibile bella e naturale, come se stesse dormendo. La perdita è già di per sé un trauma, sarebbe inutile aggiungere lo shock di una visione poco piacevole, sarebbe un dolore in più, gratuito per giunta, e qui subentra, appunto, il nostro lavoro, preparare la salma prima che la vedano i suoi cari.
Certo, anche in questo ambito c’è una buona dose di cinismo, come è lecito che sia perché è pur sempre un lavoro, ma in realtà la dimensione quotidiana è molto più umana che in certi sfavillanti uffici. Mi è capitato di essere in mortuaria a lavorare e veder fare capolino una testa dalla porta. Era la badante, ma non quella attuale, quella che l’aveva seguita fino a 4 anni prima. Appena saputo ha attraversato la città per venirla a salutare.
“La copro un attimo così può entrare” - mi sono abbassata la mascherina e sono uscita per qualche minuto. Questa scena si è ripetuta altre 3 volte per quella salma, è passata l’infermiera del primo piano, poi quelle del terzo (reparto Alzheimer) e infine il barista. Sgattaiolavano dentro furtivamente non sapendo che io stavo lavorando e poi scappavano via intimoriti, così ogni volta li richiamavo “Venga, entri pure, vi lascio qualche minuto”. Normalmente quando entrano quelli della mortuaria mi scoccio perché spalancano la porta e urlano: “avvisami quando hai finito!”, “poi mettila nella tre!”. Mi incazzo perché sono rudi, interrompono il rituale nel quale sono completamente assorta e li trovo irrispettosi, ma non è stato così per questo caso. La signora viveva da tanti anni in quel geriatrico ed era così ben voluta che molti volevano salutarla, ma non essendo parenti stretti l’unico momento buono era farlo a inizio turno o alla fine. Ed è stato bello sentire quanto fosse amata e poter lasciare il tempo e lo spazio per salutare. Non accade spesso, ma quando succede il mondo cambia colore. Altre volte capita di notare l’incuria da parte dei parenti stretti, tanto che i vestiti vengono scelti dagli infermieri. Altre volte, se lavori in casa, senti in salotto le vivaci discussioni per l’eredità - a corpo ancora tiepido. Eccolo lì, l’uomo di successo, in giacca e cravatta, che si lamenta del testamento. Ma che razza di uomo sei? Mi domando se anche stasera andrà a correre in palestra. O se andrà a puttane. Mi chiedo se troverà il tempo per piangere la madre. Magari dopo la call delle 19.30, ma prima della Champions.
È un mondo strano e noi due ci viviamo in mezzo, tra i cadaveri, non sempre belli, e i viventi, non sempre umani. È un mondo di silenzi, litanie, il ronzio delle celle frigorifere, un mondo fatto di luci fredde, asettiche e lumini fiochi, c’è la fine che è sempre un nuovo inizio e in un angolo dell’inquadratura ci siamo noi due avvinghiati l’uno all’altra.
“Mi piace quella vena lì che pulsa quando parli” mi hai detto venendo vicino. Vieni più vicino.
Poi sulla gola la tua mano calda, dolce morsa a togliere il fiato, e il cervello annebbiato un istante prima di venire.