Quanto è profondo il vuoto?
Io lo sento.
Si dice che il vuoto sia il nulla eppure io lo sento esistere dentro me.
È pesante, sai? Sembra un macigno nel mio stomaco, ma sarebbe un ossimoro.
Allora te lo voglio descrivere come assenza: come se facessi l’appello nella classe del mio essere, ma non ci fosse nessuno; come una stanza senza mobili, solo pareti nere o bianche, fai tu, silenzio... vorrei riempirla, appendere quadri, mettere un divano, un tavolo, scaffali dove appoggiare dei libri, perché no? Ma non ho i mezzi per farlo. Così mi vedo lì, inerme, in piedi al centro con lo sguardo fisso ad ascoltare l’eco del mio respiro. Poi a volte, per caso o per curiosità, abbasso lo sguardo: i piedi uniti confinati dai lati di una mattonella, sempre la stessa, la cerco di delineare al meglio, così bene da avere paura di muovermi. Ad un tratto però, quando mi sembra sia quello il luogo sicuro, la mia realizzazione, mi accorgo che sta cadendo giù all’interno di un non so che di nero, forse semplicemente aria. Continuo ad andare giù con la mia mattonella, sempre più giù. Intorno il nulla. Questa è la profondità del mio vuoto. Non so quando riuscirò a poggiarmi e non ho appigli, solo la mia mattonella attaccata per qualche strano motivo alla suola delle mie scarpe. Dopo un po’ alzo di nuovo lo sguardo, mi guardo intorno e... sì, sono ancora in quella stanza.
Insomma il mio vuoto è questa cosa qui: una pesante e profonda assenza di realizzazione. Perdizione, alcuni direbbero, estraniamento, alienazione da tutto ciò che mi circonda il quale appare effimero, evanescente, fumo al tatto. Così mi sale in gola la paura, paura di non vivere. Il tempo scorre, quello lo sento assillante, tic tac tic tac mentre io non riesco a materializzare nulla. Tutto ciò che afferro, mi lascia una nube grigia tra le dita.
Allora decido di toccare il suono: in una mano un plettro, nell’altra voglia di colori.