Non ci voleva proprio, i fari del Cayenne avevano illuminato un cadavere allungato in uno dei miei cantieri, ad Argelato, nella prima periferia bolognese. Sto morto bastardo se ne stava là per terra a guardare le stelle, e quasi mi faceva invidia. Le sue incognite erano svanite, i suoi problemi dileguati in un istante, steso al fresco di una sera di fine inverno.
C’erano due maniere per venire a capo di quella situazione: la prima era onesta ma rischiosa, che avrebbe portato a un lungo percorso di pene e sofferenze, in compagnia di avvocati che non aspettavano altro che rubarmi soldi. La seconda era l’alternativa breve, sbrigativa, sporca ma a prima vista indolore. Quella notte ero abbastanza lucido per scegliere la seconda strada.
Lo guardai in volto, era Tarek, un mio muratore: marocchino, tunisino o qualcosa del genere. Clandestino, forse terrorista, assunto, per così dire, senza troppe formalità. Il poveretto era finito schiacciato sotto un carrello di cemento volato da chissà quale piano del palazzo in costruzione. I capelli erano impiastricciati di sangue e gli occhi, rimasti mezzi aperti, fissavano l’Orsa maggiore che riluceva nel cielo.
Ma chi cazzo lo aveva sganciato quel carrello da lassù? Pensai. Ma chi se ne frega, di certo il colpevole non me lo sarebbe venuto a dire e io avrei mantenuto volentieri il suo anonimato. Pensai ai soliti futili motivi da extracomunitari, una birra non pagata, una figlia negata a qualche pretendente indegno, un pezzo di plastica scambiato per hascisc. Gli mollai un calcetto allo sterno per assicurarmi che fosse andato, non rispose. Gliene mollai uno alle palle, per avere la certezza assoluta, niente da fare, solo un rumore sordo, era morto.
Cosa ci facevo io alle tre di notte nel mio cantiere? Niente di speciale, se non che avevo consegnato qualche migliaio di euro a Rashid per comprare alcuni chili di polline marocchino. Che poi ci avrebbe pensato lui a confezionarli per una vendita al dettaglio nella zona universitaria o in qualche fetido centro sociale del quale ignoravo nome ed esistenza. Oppure li avrebbe smerciati a piccole dosi a brufolosi minorenni che a loro volta alimentavano un mercatino dello sballo scolastico nei cessi degli istituti professionali. Ma questo era tutto un altro discorso, che a me non interessava. Io investivo in Rashid, che risaliva la pianura in direzione della riviera ligure fino al porto di Genova, e lui faceva altrettanto con suo cugino Abdullah, che smerciava lungo l’asse Milano-Brescia. Quello stesso Abdullah che recapitava gli ordini allo zio, coltivatore tra i monti dei Rif, in Marocco. Era un affare da un paio di volte l’anno, un favore che facevo a Rashid e alla sua famiglia mal ridotta nel nord Africa. Quando laggiù il raccolto andava bene, io mi impegnavo a comprare tutto, come fossi una cooperativa agricola. Poi di quale giro facesse prima e in quali polmoni si andasse a depositare quella roba schifosa a me importava poco. Mi mettevo qualche soldo in tasca e facevo a mio modo beneficenza. Sì, me l'ero rigirata quel modo, un'opera pia per una famiglia di extracomunitari. L'idea di spacciare fumo mi aveva tolto il sonno per un paio di notti, proprio per una questione morale, mica per altro. Però lo dovevo fare, perché Rashid era sul serio alla canna del gas.
“I soldi non mi bastare, ho famiglia da mantenere in Marocco, e figlio da operare agli occhi. Non vede. Non vede”. Rashid aveva piagnucolato queste parole quando l’avevo scoperto due anni prima. Mi trovavo in uno dei miei cantieri, indossavo il caschetto giallo in testa e un giubbotto catarifrangente sopra giacca e cravatta, mi era giunta voce che stava per arrivare un controllo dell’Usl sulla sicurezza. La sera prima avevo convocato nel mio ufficio il fido Azouz, la mia enclave umana tra i fottuti extracomunitari che lavoravano per me.
“Azouz, ascoltami bene, domani mattina, appena arrivi in cantiere, carichi sul camioncino dieci operai di quelli in regola, lo sai chi sono, vero?”
“Sì, quelli con il permesso di soggiorno e assunti con contratto”.
“Bravo, il geometra e l’ingegnere sono già avvisati del cambio. Li prendi e li porti al cantiere di Borgo Panigale, dove ci sarò io che in cambio te ne darò altrettanti che non sono ancora del tutto in regola”.
“Va bene”. Mi rispose Azouz, guardandomi servile come un cane guarda il padrone.
“Non ci sono problemi, è che sto facendo tutti i permessi necessari per sistemare quei lavoratori, soltanto che la burocrazia italiana è lenta, e quei ragazzi mi hanno chiesto di lavorare perché hanno bisogno di soldi. Però adesso non sono ancora in regola e allora oggi li nascondo perché arriva un controllo”.
“Non c’è problema signore. Lei dice, io faccio”.
Il giorno seguente arrivai in cantiere alle nove e trenta, tutti i muratori erano in regola, con caschi, imbracature e ponteggi a norma, una cosa mai vista, sembrava di stare in Svizzera.
Quella sera stessa presi il pulmino per andare a giocare a calcetto con gli amici, e mentre infilavo borsa e bottiglie dell’acqua trovai sull’ultimo sedile un bel pezzo di fumo, marrone intenso, unto e profumato. Convocai Azouz di primo mattino e gli chiesi chi c’era seduto in ultima fila, sia all’andata che al ritorno. Non si ricordava bene, mi fornì una rosa di cinque o sei nomi. Non riuscivo a figurarmeli, ne avevo troppi, arrivavano, venivano e andavano in continuazione, tutti uguali quei marocchini, tutti sporchi e delinquenti. Quella sera stessa Azouz arrivò in ufficio e mi disse, un po’ imbarazzato, che forse aveva capito di chi fosse quella roba.
“Questa mattina Rashid ha chiesto dov'era camioncino, ha detto che aveva lasciato sopra un cappello. Ho pensato che voleva recuperare la droga, non cappello”.
“Grazie Azouz, sei un segugio. Ora stai tranquillo, nessuno non saprà che me l’hai detto tu”.
“Azouz mi ha detto che cercavi disperatamente il camioncino, con la scusa che ci avevi lasciato sopra un cappello”. Il giorno seguente Avevo chiamato Rashid a rapporto.
Aveva i baffetti rasati con precisione, un vezzo da rubacuori del Magreb. Attaccò dicendo che non gli bastava lo stipendio che gli davo e allora si arrangiava a spacciare, estrasse dal cilindro le sue lezioni di recitazione e piagnucolando mi parlò del solito figlio da operare agli occhi.
“Dio mio – dissi, scuotendo la testa – un bambino deve poter vedere”.
Mi raccontò che il gioco non valeva il rischio, che alla fine non rendeva perché i soldi finivano in tasca a quei cattivoni che stavano sopra di lui.
“Posso far arrivare montagne di hascisc buonissimo, ma non ho soldi per pagare coltivatori”. Poi, in completa tranche da confessionale, mi confidò che aveva uno zio che stava nelle montagne del Rif, che possedeva un’intera collina coltivata a canapa, che il suo era il migliore hascisc che si fosse mai sentito e che addirittura l’avevano intervistato per un documentario di una televisione inglese. Io lo ascoltavo con la stessa attenzione che dedicavo alle litanie delle rumene sui marciapiedi.
Una settimana dopo, però, chiamai Rashid e gli dissi che la sua famiglia mi stava a cuore, se potevo aiutarlo lo avrei fatto, a patto che ci fosse stato un buon ritorno anche per me. Avevo bisogno di soldi, in quel periodo il mio appetito sessuale era insaziabile, avevo distrutto due automobili nel giro di un mese e per non farmi togliere la patente avevo pagato un paio di rette universitarie ai figli di un vigile urbano. Dopo venti giorni, a Genova, c’era una nave container in arrivo da Tangeri, sulla banchina ad aspettarla stava Rashid. Fissava la prua come neanche fosse dovuta scendere la sua fidanzata. Il marinaio malleabile scaricò due casse di olive marocchine, miscelate ad hascisc appena lavorato, Rashid posò tutto sulla sua Panda e ripartì alla volta di Bologna. Siccome l’affare portò un ottimo margine di guadagno, il traffico diventò regolare e il figlio di Rashid si poté operare agli occhi, così almeno disse.
Ecco, nel mio cantiere alle tre di notte, Rashid aveva preso i soldi ed era partito per Genova. Io invece mi ero trovato come regalo un morto. Allora si può comprendere perché scelsi il modo sbagliato per risolvere il problema, perché quello giusto: chiamare ambulanza, becchini e Carabinieri, avrebbe comportato l’arrivo di persone non gradite tra le mie mura. Il metodo sbagliato era di una semplicità disarmante, telefonare al fidato carpentiere Azouz, che poi era della stessa razza di quello allungato per terra, e farsi aiutare a smaltire il cadavere.
“Azouz!!”.
“Pronto?”
“Azouz, cazzo, sono Andrea”.
Silenzio.
“Azouz!”
“Sì?”
“Azouz, tirati giù dal letto e vieni in cantiere ad Argelato, non mi dire che sono le tre di notte perché già lo so”.
“Signor Andrea, ma...”.
“Dai, Azouz, finisci quello sbadiglio, ringrazia il tuo dio perché mangi tutti i giorni e vieni qua, dai che è successo un casino, una di quelle beghe da risolvere in fretta, nel cantiere di Argelato, hai capito bene? Quello con i palazzoni”.
Il silenzio di Azouz a quella notizia mi confermò la sua indole, io avrei mangiato la cornetta a bestemmie, lui restò in silenzio, e probabilmente chiese veramente un aiuto ad Allah per lasciare il materasso caldo e mettersi in macchina.
Non erano ancora le quattro che la piccola betoniera gracchiava nel silenzio spettrale del cantiere, eravamo lontani da qualsiasi caseggiato, accanto c’erano soltanto altri scheletri di palazzi in costruzione. Nessuno ci poteva sentire, al massimo qualche altro clandestino senza dimora che si riposava in appartamenti vuoti, ma avrebbe tenuto la bocca chiusa per convenienza, perché io gli davo lavoro a questi maledetti disperati. Azouz aveva preparato l’impasto e adesso stava immobile davanti al cadavere, come al solito era vestito con il suo stile bric a brac e puzzava come un retrobottega nel souk di Marrakech. Io avevo coperto il volto del cadavere con un sacco vuoto di cemento da venticinque chilogrammi, cazzo, mi ero sporcato le mie Herring da quattrocento euro. Azouz restava lì a non far nulla, lo guardavo e vedevo le sue labbra muoversi, poi lo vidi portarsi le mani davanti al volto, aperte, poi ancora se le appoggiò davanti agli occhi per poi farsele scivolare in basso. Pregava, ne ero certo. Mi feci il segno della croce, per rispetto, ma non me ne fotteva nulla, se non che non succedessero altri casini.
“Cosa vuole fare adesso, signor Baldi?”
“Io lo chiedo a te, Azouz, mica posso chiamare l’architetto, e non so nemmeno come cazzo sono fatti questi appartamenti che stiamo costruendo, dimmi dove stai lavorando, e dimmi dove possiamo murarlo. In un cesso, nell’ammezzato, nella soffitta, lo tagliamo a pezzi e lo distribuiamo nelle colonne?”.
La faccenda si rivelava più complicata del previsto, gran parte delle pareti erano già state erette.
“Andiamo là – disse Azouz -, in quella zona abbiamo finito e non ci dobbiamo più tornare, i prossimi che ci vanno sono quelli dell’intonaco, non prima di venti giorni”.
Fu così che Tarek finì spianato in un’intercapedine che creammo ad arte nel cesso dell’appartamento al primo piano. Quei settantacinque metri quadrati diventarono settantaquattro. Poco male, li avevo già assegnati attraverso l’agenzia che mi curava le vendite, ci sarebbe andata una coppia di sposi talmente innamorati che mai si sarebbero accorti che in quel bagno mancava qualche centimetro in larghezza.
“Grazie Azouz, saprò come sdebitarmi, domani resta a casa, dirò all’architetto che mi hai chiamato e che hai la febbre”.
Me ne tornai verso Medicina. Sulla provinciale, ai centoventi chilometri all'ora, sverniciai Azouz che rantolava nel rispetto del codice stradale, tornando verso casa. Lo vidi concentrato al volante e provai quasi pena, la marmitta stava per distendersi lungo l’asfalto, il portapacchi tendeva all’indipendenza, ballando su viti arrugginite.
Azouz puzzava sempre di cumino e zafferano. Fervente mussulmano, tre volte al giorno smetteva di lavorare per baciare la sabbia e rimirare qualcosa all’orizzonte, là, verso Dubai. Questo suo atteggiamento, all’inizio, mi aveva fatto incazzare, perché si era trascinato dietro tutti gli altri, gente che dubito sapesse cose fosse un dio. Tutti i giorni, a un certo punto, si fermavano, si toglievano le scarpe e giù in ginocchio a sventolare le mani verso il cielo, fermando i lavori del cantiere. Marocchini, Tunisini, Algerini, tutti mussulmani credenti, pure gli albanesi erano diventati mussulmani, più qualche rumeno che si era convertito in tempi da record. Quei pochi italiani che erano rimasti, quando questi pregavano, lanciavano bestemmie da pelare gli alberi. Però Azouz si rompeva il culo per me, sgobbando, tenendo in piedi la mia azienda quando andavo a mettere le chiappe al sole su qualche isola. Azouz sapeva o immaginava tutto dei miei loschi affari, ma a lui non importava, faceva finta di non capire, espiava le infezioni morali pregando in continuazione.
Arrivai a casa che ero lercio e inzaccherato, il sole sarebbe sorto a breve. Provai a dormire, adagiandomi così com’ero sul divano, ma visto che proprio non riuscivo a chiudere gli occhi, decisi di farmi una doccia e rientrare in pista. Alle 12 avevo finito il giro di tutti i miei cantieri, che voleva dire digerire più di cento chilometri e ascoltare un disco intero di lamentele da parte di architetti, geometri, venditori, compratori, fornitori, muratori del terzo mondo e carpentieri dislessici. Dopo aver detto di sì a tutti, decisi di rintanarmi in un container, riscaldato da una stufetta elettrica che riusciva soltanto a ustionarmi parte del polpaccio. Il fatto accaduto nella notte non mi aveva più di tanto sconvolto, non l’avevo ucciso io quel tizio, era un extracomunitario, che nessuno sarebbe venuto a reclamare, lo potevo sostituire con un altro della sua razza. Di morti ne avevo già visti, da bambino facevo il chierichetto e Don Marco, spesso, mi faceva servire ai funerali. Ci andavo volentieri perché venivano pagati 200 lire, il doppio di un semplice servizio messa. Però, se arrivavi alla camera mortuaria in anticipo, trovavi il becchino che non aveva ancora chiuso la cassa e quindi rischiavi di vedere quel corpo verdastro steso nella bara, vestito con l’abito della domenica. Insomma, per un motivo o per un altro, un marocchino morto non poteva sconvolgermi la vita. Avevo ben altro a cui pensare.