Isola di cemento
Il mio ufficio si affaccia sulla East Side Gallery. Qualcuno dei miei colleghi lo considera una fortuna o, inspiegabilmente, un motivo di vanto. Ogni tanto mi alzo dalla scrivania e sposto i miei occhi dai monitor alle vetrate a parete intera, ammiro lo spettacolo metropolitano senza suono, un altro schermo davanti al quale rimanere impassibile. Il sole perfora le nubi e colpisce obliquo la riva del fiume, retroillumina il manto erboso sempre più stretto, le facciate dei nuovi edifici, la strada trafficata, i lavoratori dei cantieri vicini. Lungo la passeggiata del muro, i turisti si sostituiscono alle righe di codice, si muovono lenti, si fermano davanti ai graffiti più famosi, il bacio fra Brežnev e Honecker, la trabbi che sfonda la quarta parete, si fanno i selfie, ridono, scherzano, giocano al gioco delle tre carte (ebbene sì). Da qui posso studiare la dinamica dei capannelli di persone, i complici che fingono di scommettere, quelli che fanno il palo nascosti fra le auto parcheggiate. Sul muro crescono cespugli di rose, sbocciano fiori stilizzati, due o tre all’anno, a volte molte di più, i turisti non notano mai le spine e neanch’io da quassù. Qualche bicicletta risale il traffico in direzione del semaforo, i monopattini elettrici sfrecciano a lato della strada. Una vecchina esita prima di attraversare Mühlenstraße fuori dalle strisce pedonali. Quando si decide, percorre due corsie con piccoli passi svelti e raggiunge lo spartitraffico, oasi di salvezza dove riprendere fiato e coraggio. La striscia di erba gialla le permette soprattutto di affrontare un senso di marcia per volta. Aspetta con un piede oltre il marciapiede, la ciabatta di sughero che non tocca l’asfalto, mentre le auto le passano vicino troppo veloci. Un suv lucido sembra quasi puntarla e la vecchina si ritira all’ultimo momento. Mi ricorda quando giocavo a Prince of Persia 2D sul computer da piccolo e il tasto shift mi impediva di cadere nei burroni: l’omino stilizzato avanzava un passo alla volta e, se il piede non trovava terreno sotto di sé, ritirava prontamente la gamba. O almeno questa è la spiegazione protoscientifica che mi ero dato. La vecchina però è tridimensionale e il suo rischio ha persino quattro dimensioni, se non di più, a prescindere da quante ne avverta lei.
Non sento grida o il suono del traffico (le finestre del mio ufficio sono molto ben isolate), ma noto con la coda dell’occhio i movimenti improvvisi dei giocatori che scappano alla vista di una camionetta della polizia. Il furgone scuro della Polizei arriva a grande velocità, le luci blu intermittenti, vedo scendere i soliti poliziotti mastodontici, giubbotti, anfibi, manganelli. Sono in tre, due uomini e una donna, e placcano altrettanti truffatori di strada, fra lo stupore dei turisti. Qualcuno inizia a fotografare anche i poliziotti, un’attrazione turistica come un’altra, prima di essere dissuaso da un gesto un po’ troppo brusco. Quando torno a cercare la vecchina nel suo impermeabile rosso, la trovo ancora sullo spartitraffico, sdraiata fra l’erba secca; non riesco a scorgerne i lineamenti, ma vedo le nuvole grigie e compatte riflesse nei suoi occhi. Mi volto e torno a sedermi alla mia scrivania, le lettere sostituiscono le mie visioni, la luce fredda dei monitor quella del sole.