Nicola dice che gli piacerebbe sapere cosa vuol dire per me essere italiana. Io questa domanda la sento che mi risuona dentro abbastanza tutti i giorni, abbastanza sempre.
Io che sono italiana me lo ricordo ogni mattina ed è una sensazione strana. Non sempre facile. Però in fin dei conti bella.
Sono italiana per negazione, perché non sono né di un posto né di un altro, ma semplicemente italiana. I miei nonni venivano da 4 posti diversi: Umbria, Veneto, Napoli e Pesaro e persino la veneta aveva comunque la mamma lombarda e il napoletano era anche molisano da parte di padre. Mio padre è nato in Africa e io stessa sono nata e cresciuta in un posto che è nelle Marche ma si sente Romagna e, tecnicamente, sul piano strettamente geografico, lo è anche. Ora da diversi anni vivo a Roma, la amo e la considero casa eppure non riesco a sentirmi romana.
Essere italiana è molto più semplice, come una specie di insieme più grande, senza che serva specificare.
Anche perché, poi, da adulta, ho riconosciuto come familiari e perfettamente aderenti a me e alla mia persona posti diversi con cui ho legato tantissimo, senza per questo aver con loro un rapporto di sangue, per così dire, tutt’al più delle amicizie speciali.
Palermo, per esempio. Nel corso della mia vita, ogni volta che metto radici, lo faccio di fianco a dei palermitani, perché ci capiamo alla grande, succede sempre, senza che possa evitarlo. Palermo è un posto che sento come fosse casa, riconosco le vie, ricordo i luoghi, suggerisco itinerari a chi la va a visitare. Mi manca. Ad un certo punto, se non ci torno da un po’, Palermo mi manca. Un po’ come ti manca casa, in fondo. I cuochini in via Ruggero VII, il ficus di Piazza Marina, la Taverna Azzurra, la Kalsa.
Ma anche Bologna, dove mi perdo con una facilità disarmante, perché Bologna non ha una pianta romana, non è quadrata, no. Bologna è rotonda, come il tempo che ti regala. È il posto in cui per anni ho pensato di voler andare a vivere e rimane lì, come il posto bellissimo con un clima infame.
Poi c’è Torino, che in questo tour delle città invisibili del mio cuore merita un posto tutto suo. Torino limpida e profonda, con gli strati sottili e i sapori speciali. Torino di Borgo Dora e di Piazza Castello, di Piazza Vittorio e di San Salvario. Torino che legge e Torino che balla, che produce e che gioca. Torino mi ha educata, ha realizzato molti miei sogni e qualche incubo. Anche a Torino ci vivrei, eppure non lo avrei mai detto fino a pochi anni fa.
Visto? Di dove sei? Italiana. È più semplice.
Ma non credo sia tutto qui. È più qualcosa che attiene all’identità, no? A cosa vogliamo dire di noi.
Ci pensavo l’estate scorsa, mentre facevo il bagno in piscina con un signore ebreo. La piscina era la sua e io ero ospite di sua figlia. Il signore, nel pieno del suo non fumare del sabato, mi aveva preso in simpatia e mi stava raccontando la storia della sua vita, come diversivo da quel digiuno penitente. Era arrivato in Italia da ragazzino, dalla Libia. Tra le altre, innumerevoli cose che lo riguardavano, era molto amico di un giovane rabbino molto colto, anche egli, come lui, sefardita, perché veniva dalla Spagna.
La conversazione era andata avanti per molto ancora e il numero di nozioni che avevo ricevuto e debolmente provato a cogliere è altissimo. Ma l’unica parola che mi girava in testa era sefardita, non fosse altro perché era la prima volta che la sentivo pronunciare.
Ma poi, mi chiedevo, come fanno ad avere la stessa origine, se uno viene dalla Libia e l’altro dalla Spagna? E che razza di origine è sefardita?
Poi ho capito. La domanda non era “Di dove sei?” ma era “Chi sei?”
E per quel signore dirmi di essere un certo ebreo era più importate che essere romano, di origini libiche o quant’altro.
Un po’ come se dovessimo scegliere le parole per descriverci. Io direi che sono alta, divertente e golosa. Qualcuno direbbe che sono una fumatrice, qualcun altro che sono elegante, qualche amica vi direbbe che sono un’ottima cuoca e conosco persino chi oserebbe definirmi sportiva. La parola è lì, negli occhi di chi la legge in un mare di possibili opzioni.
Ed essere italiana è così, per me. Sta tra l’essere marchigiana e l’essere europea, a cavallo tra il saper cucinare e saper abbinare le scarpe e al vestito. È una specie di attitudine alla vita.
A volte credo si veda da fuori, che sia una specie di aura, una vibrazione, un nonsochè.
Mi succede, mentre faccio lo slalom tra i turisti in Piazza di Spagna, ogni mattina, e i venditori che piazzano gite sui pullman panoramici non mi fermano mai. Forse un po’ romana inizio a diventarlo, chissà. Certo sono palesemente italiana, qualsiasi cosa significhi.
“Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.” Lo ha scritto Montale ed è come dire che riesco a descrivermi parlando di ciò che non sono.
Un paio di anni fa il mio cugino americano si è spostato. Lui statunitense con origini italiane, lei canadese del Québec. Il ricevimento era a New York, in una cantina di Williamsburg. Io e mio fratello ci siamo andati senza preoccuparci troppo del nostro essere o meno adeguati all’evento. Poi, mentre eravamo seduti dal lato dello sposo, ci si sono avvicinati due canadesi, si sono seduti dietro di noi e sorridentissimi ci hanno detto, non chiesto, “Voi siete gli italiani!”. Perché si vedeva da lontano, nonostante avessi messo le scarpe sbagliate. Era evidente che non fossimo canadesi o americani. Da lontano. Perché? Non lo so. Ma mi piace che sia così, mi piace essere italiana anche se non riesco sempre a dargli un significato concreto.
I miei cugini dicono che solo in Italia la gente mangia parlando di cibo. A loro fa impazzire questa cosa. A me piace, quando ci penso, è un tratto abbastanza caratteristico anche di me: il cibo nella sua magia, intendo. Ma non basta, serve molto di più.
Non certo di questi tempi, poi, che se ti vanti un attimo di più di essere italiana finisci per sembrare sovranista. Hey, no, ve lo giuro, non sono sovranista. Anche se sono italiani anche quelli e se non mi sbrigo a trovare una definizione finiranno per prendersi tutta l’italianità e gonfiarla di ostilità verso chi italiano non lo è. Proprio come si sono presi le bandiere.
Che vanno in piazza Montecitorio a dire che il Presidente della Repubblica non sa leggere la Costituzione, chiedendo di votare perché a loro va, sbraitando di Governi eletti dal popolo e di primati degli italiani su non si sa bene chi altro. Il tutto con le bandiere, un’infinità di bandiere.
Se non mi do una mossa, di italiano rimarrà solo questo. Solo odio, difesa del cortiletto, pretesa di superiorità e diritti della maggioranza. Che paura.
Anche io sono italiana e vorrei che nel significato ci fossero anche Michelangelo e Caravaggio, il Pantheon e la Cattedrale di Palermo. Vorrei ci fossero le scarpe di pelle cucite a mano e gli abiti di sartoria. Vorrei le verdure impilate al mercato e tante varietà di pesce quanti i chilometri di costa che ha l’Italia. Vorrei i colori e i paesaggi che ti tolgono il fiato, che i tuoi occhi siano italiani o no.
Vorrei che dentro l’italianità rientrassero i vecchini seduti fuori dalla porta e i ragazzini che giocano a palla e si sbucciano le ginocchia. Vorrei le piazze, sempre vive e mai recintate, aperte a tutti. Come Piazza di Spagna, una volta ci si poteva sedere sulla scalinata a riprendere fiato, ora se lo fai arriva un vigile e ti fischia addosso per farti alzare. Niente natiche sulla scalinata!
È una sfida incredibile riempire la parola italiana di qualcosa che descriva me e anche chi crede che le donne vittime di violenza non meritano spazi di accoglienza, che i gay sono malati e una minaccia per la società e che chi ha la pelle diversa da noi è qualcuno di pericoloso.
È una sfida anche più grossa di fronte a miei concittadini che chiamano terroni altri miei concittadini.
Ma è come in quel corto di Gipi, quello della bandiera, lo avete visto? C’è Gipi che un giorno si presenta da Gero con una bandiera italiana sulle spalle e Gero gli chiede se si è rincoglionito, se è diventato fascista. Lui dice di no ma durante il tempo che passa con la bandiera sulle spalle viene salutato solo da fascisti, con motti del ventennio e saluti romani. E allora Gipi si spiega, dice che quella bandiera non è solo loro e che non gliela vuole lasciare. Quella bandiera è sua quanto loro e lui la vuole.
In fondo è tutto qui. Ci sono momenti in cui ci si imbarazza ad essere italiani perché siamo il popolo che meno impara dal proprio passato, quello più ostile al cambiamento, quello più vecchio e purtroppo retrogrado. Quello in cui i vecchi in pensione da 40 anni ti dicono che stai sbagliando tutto nella tua vita dall’alto del loro benessere che tu, con il tuo lavoro sottopagato, contribuisci a mantenere versando contributi stellari ogni mese. Eppure siamo quelli che hanno lottato per la propria liberazione, che ancora hanno voglia di incontrarsi e parlarne, quelli che sanno godersi la vita, quelli che sanno fermarsi, anche solo per un piatto di pasta.
Sono luoghi comuni un tanto al chilo, lo so.
Ma se mi si chiede perché mi sento italiana io non lo so spiegare meglio. So che mi ci sento bene e che sia qualcosa per cui penso valga la pena di impegnarmi, ogni giorno. Qualcosa che voglio riempire di significati, i più belli che conosco. Qualcosa che voglio strappare dalle grinfie di chi vuole riempire questa parola di odio e ostilità. A me non sembra poco.
Questo pezzo è per Lucha y Siesta, casa rifugio per donne vittime di violenza, a difesa della sua causa e contro il suo sgombero.