Jerry Giagià chiamata wazzap
Nel tardo pomeriggio un essere metafisico con prefisso +JG51 mi ha chiamato al telefono: weeeeeeeird.
Non ho risposto. Hai visto mai che era Jerry Giagià che mi voleva dire Doppia Libidine + Taaaac, che mi voleva ricordare l’accessibilità a soluzioni abbondanti per aspetti inutili dell’esistenza, che mi voleva mollare un peto e una strofinata ‘i capoccia, un malandrino strizzamento di testicoli, un qualsivoglia gesto brutale atto a celare il suo nucleico sentimentalismo.
La rassegnazione dello spirito come suicidio quotidiano: Jerry Giagià here I am, but call me tomorrow, t’e capì, taaaaaaac.
Oggi non ho tempo per stare al telefono, non ho energie per le cosette assurde.
Oggi voglio trovare gioie nuove bellissime, quindi prenderò il sentiero che ho preso ieri, quando ero impegnato solo a sognarle.
Sarò di nuovo il benvenuto nel tragitto peregrino del merlo perduto e della volpe vastasa, dove profumi colorati suonano e si rispondono, cantano cose prusse, schivano anitre da palude col piumaggio variopinto, il becco breve, il rosso brillante, piume da tergo e creste sul capo che guidano paperini poppanti in fila per tre che pittano sciabordi di sonii acquei.
Oggi cammino e sogno dove dico io.
Today I walk my line.
Un tuguriello legnoso da marmotta nutrio-castorata stronzeggia sul cuore dell’argine, i ronzini delle mosche ghiotte riverberano intorno ad un ammasso di concio: I say hello to my little friends (you say whatever).
Io vago, in moto fluido, come una spuma d’onda illusa d’essere sangue del mare - quando invece ne è solo veloce frammento in volo. Posso vestirmi di foglie, piangere leggero col vento, vestirmi di nube, respirare piccole palline di foschia e rincorrere sotto la luna imminente i cirri d’argento, nel cuore il pallore dell’ombra di una gioia ardente, raggi, voli e saette nel sole rosato del ritorno, uno slancio di coraggio fino all’eterno passaggio, di nuovo, quando ancora un giorno si appoggia sulla terra liberando la sua amante nera.
Dietro, un mulino. Di fianco, un rullo di fieno e un baraccone d’attrezzi, poi corvi, gracchi, giunchi di roccia, folate d’immanenza in forma di goccia sui fili madidi d’erba.
[Davanti a noi un mondo con mille vie che attendono
alberate d’ombre
rami genuflessi del brillar le stelle
tornar potremo
a casa
con passo infine giocondo.]
Procedo, viandando.
Un essere metafisico in genere non ti chiama al telefono, pensai.
Cosa mi fa supporre potesse essere davvero Jerry Giagià, se non il prefisso +JG51 unito ad una narrativa di libertà?
“Che gran bella botta d’assunto!” cinguetta a voce alta un simpatico e telepatico merlo in relax sul manto, irrompendo dreamy nel mio sentiero interrogativo.
“Filosofia pura!” slogana una volpe con l’ugola di Umberto Smailimberti - prima di sbucare di getto da un rovo e mordendo il merlo tra le fauci birichine, annichilendolo e brandendolo in bocca in silenzio, in un gesto di olimpico trionfo.
“Ch gr bel bott d’assunt era qlla, oh cmmnator solitar” ricinguetta sofferente il merlo, prima di spirare maciullato e triturato dal piccolo canide.
“Non voglio disprezzare la sensibilità di nessuno, che la sensibilità è il genio di ciascuno...” azzarda la vulpes smailimberti con atteggiamento ammazza-mood. “Ma devo proprio dire che questo merlo merlato mi sazia e ristora, mi rende felice.”
“Che tu possa condurre giustamente la tua vita da volpe!” dissi.
“Ma almeno la paura dell’ignoto ti è conosciuta?” chiesi cortesemente.
“No. Io vago a caso, come un disegno tracciato dalla polvere sulle ali di una farfalla. Quel che arriva, prendo, fino a che un giorno qualcuno non prenderà me. Perché, tu hai paura?” incalzò la volpe.
Vento.
Pacciame.
Salici piangenti.
Un brivido di freddo, un sentimento nuevo cristallizzato nei ricordi di un volto amico di donna, labbra, una coccola, già nell’aria il profumo di cena.
“Cara volpe...” appuntai con una carica evidente di moralismo.
“Ho paura dell’ignoto, sì. La gente siamo uniti tutti dalla stessa necessità di esser presa per mano, di sentirci rassicurati, la gente noi vogliamo qualcuno che ci allunghi un sorriso ciandiano sulla spalla e ci dica che andrà tutto bene, che ci dica che le nostre conversazioni quotidiane con lo scheletro non ci bastano, noi gente abbiamo bisogno di altra gente che ci dica che i paradossi di oggi sono i pregiudizi di domani, i giudizi di sabato, i razzismi della settimana prossima e gli infanticidi a Cogne, Valle D’Aosta, vogliamo ci dica che oltre l’individuo esiste una società, che oltre la nostra psiche personale esiste quella collettiva, inconscia, che nasconde allo stesso modo grandi attrazioni e scazzi impensabili, vogliamo che ci dica che siamo bravissimi (livello A.2.1) a comportarci irrazionalmente in nome della ragione; che ci dica che il vero amore con la v minuscola non è né fisico né mentale, e non è per nessuno in particolare, perché il vero amore con la v minuscola è una accettazione simil-paracula, giornaliera, paziente, misericordiosa, sbracciata, salterina, bigherzolosa, fanciulla di tutto ciò che è, è stato, sarà e non sarà.”
“Sei ancora in tempo per richiamare quel numero metafisico.” disse la volpe. “Due peti di Jerry Giagià contro il panteismo pesante dell’ignoto, poi tutto passerà, sarai felice”.
Vento.
Pacciame.
Salici piangenti.
Fame, ora di cena.
Digito il numero +JC51.
“Pronto, figa! Doppia libidine coi fiocchi qua, mega-taaaaaaaac coi soldi del paparino. Uè alòra: un po’ di felicità?”.