Zurigo, un tardo pomeriggio grigio di primavera, seduta sul molo di Kilchberg.
Tutte le città in cui ho vissuto si affacciano sull’acqua. È per il suo essere mutevole, per il suo dinamismo e il senso di momentaneo adattamento nel posto in cui si trova che mi porta a scegliere di sostare in determinati luoghi dove essa è interazione tra elementi artificiali e il loro contesto. Sarà forse una scelta inconscia data dal fatto che vengo da un posto di mare.
Qui a Zurigo le sponde del lago sono diverse tra loro. La sponda est è fatta di banchine continue in cemento e lastroni in pietra ordinata e di edifici freddi che si affacciano sul lago.
La parte ovest, in cui mi trovo, invece, è meno costruita, più residenziale. Il suo disegno è il risultato di spazi verdi che si allargano e si restringono lungo tutta la sua dimensione. Gli elementi che la compongono sono risultati della natura che ha avuto modo di crescere. É un’atmosfera più calma e meno frenetica. Il sole tramonta dando le spalle al lago e si nasconde dietro le case; il cielo si colora di luce riflessa rosa caldo, per raccontare un giorno che finisce. La linea d’orizzonte del lago è sempre una sponda di terra, uno spazio finito. Il suo contorno si compone di gruppi di case dai tetti spioventi dove la linea continua ad un certo punto diventa campagna interrotta da alberi radi. Salendo con lo sguardo più in alto, la foresta è una linea scura, come da fondale di una quinta teatrale. E il sole al tramonto si abbassa su di essa, illuminando gli alberi col suo ultimo bagliore, in uno scenario completamente diverso da quello a cui sono abituata.
La mia città si trova sulla punta dello Stivale, dove Mar Tirreno e Mar Ionio si incontrano; la fine del giorno arriva violentemente che neanche te ne accorgi, seduta sul bagnasciuga. Lo spazio si avvolge malinconicamente di odori crudi, del sale che si asciuga sulla camicia bianca di lino mentre i piedi cercano un contatto con l’acqua che si allontana e si avvicina ad ogni onda, in un tempo che non riesci a misurare. Il cielo da rosso fuoco diventa arancione e poi viola, come la costa da cui prende il nome. Tutto si ferma, tranne l’acqua che procede il suo moto costante.
A Zurigo invece, casa mia si affaccia su di un prato rettangolare, non grande abbastanza da chiamarsi parco. Gli fa da sponda un molo di attracco delle barche da fine settimana degli zurighesi annoiati. La bellezza di quel molo è nell’impressione che dà a prima vista: si ha la sensazione di un’entrata sul lago, contornata da due stanche lanterne arancioni che non si accendono più. Una soglia che quando ti ci siedi riesce a mettere in pausa il rumore del mondo veloce e ti concedi il tempo di respirare lentamente. Una porta su gli spazi della mente, un luogo apparentemente dimenticato e consumato dal tempo che passa.A terra le vecchie doghe di legno della pavimentazione si incrinano sotto il peso dei passi, le anatre si lasciano trasportare dalla corrente, il metallo del corrimano macchiato di bianco dal calcare dell’acqua dolce.
L’erosione di lago è diversa da quella di mare, colora di grigio scuro il legno lasciando piccole macchie bianche che non sono salate; sanno di carezze di onde costanti.
Il molo si mostra come un posto malinconico, dimenticato, un piccolo angolo di saudade, dove il passare dei giorni viene scandito dall’acqua che cambia colore col passare delle ore e dall’imbrunire del cielo. Il molo è un punto di sosta per riflettere. Un posto dove viaggiare da fermi. Ogni tanto la gente passa di lì, guarda la sponda opposta, scatta una fotografia, o più semplicemente, rimane ferma a osservare intorno il risultato di una natura costruita dall’uomo, che si lascia modellare mantenendo a stento il proprio equilibrio. Molte volte questo piccolo angolo fuori città è adatto a meditare, mettere in ordine i pensieri e lasciare soffiare via dal vento la polvere scura dalla mente.
Adesso che è primavera, seduta sul molo, il vento è più leggero e non punge il viso come in inverno. Silenziosamente, sussurra alle barche coperte in attesa di allontanarsi da riva e scuote le corde dei piccoli nodi che dondolano dentro e fuori dall’acqua. La loro ombra si muove, visibile dal fondale che nei giorni di sole è limpido e si vede il fondo di pietre scure.
Mentre le barche spoglie delle loro vele dondolano pigre tra le onde leggere che le sfiorano appena. Questo spazio è un’apertura sull’acqua lontana dalla vita veloce della città e dai suoi materiali duri e fermi, che la rendono grigia. Un grigio omogeneo senza contrasti e senza ombre, Come le persone sembrano ripetere ogni giorno gli stessi movimenti.
Seduta sul molo, sotto un cielo indeciso e pigro da stare nuvoloso per settimane, gli occhi si chiudono. E l’acqua del lago diventa mare, le lanterne arancioni accese sono appese adesso a muri di pietra a secco di vecchie case, le sponde si allontanano, diventando un’isola lontana, illuminata da luci sfocate giallastre. La linea d’orizzonte è solo una linea; il sole non è più di spalle, ma tocca il mare e si tuffa dentro.
Si sente l’odore della calce dell’intonaco che cade da sola dai muri delle case abbandonate, dell’erba che ci cresce dentro, del sale che si asciuga sul legno di una pedana per far salire la barca da pesca. Lì vicino c’è una sedia di legno usurato lasciata davanti alla porta di casa da un vecchio pescatore stanco. Due gabbiani volano bassi vicino all’acqua senza sfiorarla, quasi a non volerla disturbare. Le onde si muovono e suonano; l’acqua a riva ha i contorni bianchi della schiuma che lasciano. La camicia di lino che si asciuga a vento, ha le striature bianche del sale che rimane, i capelli ancora umidi cadono disordinati sulle spalle mentre i piedi cercano l’acqua.
Si sente l’odore di quei vicoli stretti, dove i balconi si sfiorano, le tovaglie appese dalle donne di sera a volte scivolano nella piccola via al primo soffio di vento. Il suono del mare ti fa da sottofondo, ed è tutto un saliscendi di vie che si intrecciano, di scale che si intersecano e di gradini che portano all’acqua.
Le onde toccano gli scogli, la spiaggia e le pedane delle case a picco sul mare. Non ti perdi mai, sai che tutte le strade portano all’acqua in quel posto dimenticato dal mondo, dove il tempo si ferma.
Riapro gli occhi, la camicia bianca di lino sa di bucato, sotto il mio impermeabile nero. Le gambe penzoloni non arrivano all’acqua. È appena piovuto; chiudo così la porta del molo, mentre lentamente ritorna il rumore di una città veloce. Il tempo adesso scorre normalmente.