La circolazione del sangue
La sedia assomiglia a quella di un dentista, forse anche la stanza, asettica il giusto, con le infermiere in camice azzurro che si avvicendano fra i vari pazienti. Qui si vede più sangue, ma dentro alle sacche, nei tubi di plastica, è tutto sotto controllo e non incute timore. D’altro canto io non ho paura neanche del dentista, o degli ospedali in generale. Negli ospedali sono nato e cresciuto, ci ho lavorato e ci morirò (si può quasi dire che la vita fuori dagli ospedali sia la parentesi). Ho un po’ paura degli aghi, questo sì, lo ammetto. Inoltre l’ago per la donazione è grande quasi quanto un tubicino, posso scorgere la fessura all’interno del beccuccio inclinato. Distolgo lo sguardo all’ultimo, mentre il freddo metallo penetra l’epidermide, creando una breccia sulla superficie della mia entità. È così che divento tutt’uno con i tubi e le macchine, con le sacche e le provette, con il laboratorio stesso, con l’ospedale. Al termine dell’arto perforato, il sinistro, stringo un antistress a forma di cuore stilizzato, quello che siamo abituati a rappresentare e pensare, molto diverso da quello spugnoso e sanguinolento che mi batte nel petto e che spinge il liquido scuro fuori di me. Cortocircuiti che confondono la mia mente, già più leggera. Mi lascio cadere in grembo il libro che mi ero portato (Leviathan, degno di essere riletto in lingua, come tutti i romanzi di Auster) e mi guardo attorno. La poltrona mi tiene in alto i piedi, il busto inclinato, una specie di bilancia da cucina ruota e si inclina senza sosta sotto alla sacca (per prevenire la coagulazione suppongo). Le infermiere biondissime espletano ogni passaggio con professionalità e noncuranza, mentre i non-pazienti ostentano spesso un po’ meno sicurezza. Sono quasi tutti immigrati, come me, e non è un caso: in Germania non viene concesso un giorno di ferie per donare il sangue, ma ogni cosiddetta donazione viene pagata 20€, e per questo conviene solo a chi non lavora o guadagna molto poco (il termine stesso convenire viene evocato dalla ricompensa economica, che esclude a sua volta il concetto di donazione, rimasto solo nominalmente). Un uomo dalla carnagione olivastra è attaccato alla macchina per la donazione del plasma, dove uno strano labirinto trasparente di tubicini rigidi si riempie del suo liquido vitale, come un circuito stampato col sangue al posto del rame. Continuo a stringere la pallina gommosa a un ritmo sempre più blando, mentre un decimo della mia forza viene trasferita in provette e sacchetti a tenuta stagna. Proprio mentre viene verso di me a controllarmi, un’infermiera fa un cenno a una collega; quella non capisce subito e si affretta solo all’ultimo momento verso la porta scorrevole del laboratorio. Faccio in tempo a vedere passare una barella lenta, il lenzuolo che lascia intuire la forma umana al di sotto ma non ne lascia scoperta neanche un centimetro. L’inserviente che la spinge ha un’aria annoiata e non ci degna di uno sguardo.