La cognizione del dolore
Ho raccolto la cicca che hai spento con veemenza sotto al piede sinistro.
L’ho fatto senza pensarci, ragionandoci solamente qualche ora dopo, quando me la sono ritrovata nella tasca posteriore dei jeans.
Non avevo mai visto il tuo piede muoversi così, mi hai spaventata.
Mi ha spaventata riuscire a raccogliere da terra solamente il filtro, l’unico superstite di quei cinque minuti di vita che abbiamo trascorso a guardarci e basta, senza parlare, senza riconoscersi.
Inconsciamente, attraverso quel gesto minuscolo, ho scelto di portarmi a casa tutto il silenzio che siamo riusciti a frantumare in tanti altri silenzi minuscoli; le ginocchia sbucciate e altri rimpianti; gli sguardi pieni di tutto quello che è stato cancellato ma che si può ancora miracolosamente leggere in contro luce.
Mi nascondo dove tutti possono vedermi ma nell’attesa respiro poco.
Coraggiosamente entro da sola dentro una sala da concerto, affrontando la mia più grande paura, quella di stare male senza poterlo dire a nessuno.
Mi siedo con la schiena dritta, le gambe accavallate. M’improvviso una donna che non sono e che non credevo di conoscere. Mi concedo un nuovo nome, una storia migliore, una postura e un sorriso che non mi appartengono ma che ho sempre invidiato e segretamente imparato a memoria.
Conto e nascondo le cicatrici: stasera non sono mai stata ammalata, mai fragile.
La stanza è piccola, claustrofobica, i volti che incontro sono strani, deformati, li immagino provenire da mondi lontani, da vecchie fotografie ingiallite, chiuse in certi cassetti polverosi persi nel tempo. Almeno non ti ritrovo in nessuno di questi e tiro un sospiro di sollievo.
Un bambino mi sorride immotivatamente dal bordo del palco e dopo esserci scrutati per un po’ gli scatto una fotografia con l’analogica, concludendo questa nostra conversazione muta con una linguaccia.
Sul taccuino appunto tutte le sensazioni che mi capita di provare, tutto quello che è importante e fa battere il cuore, tutto quello che credevo di aver perduto per sempre e che invece ritrovo dentro una voce e nel suono impreciso di una chitarra, ricordandomi che non si finisce mai di diventare.
Mi lascio invadere dalla musica, dalle parole che escono dalla gola di Lucio Corsi innestandosi prontamente nella mia, come mi stesse innaffiando o svezzando alla bellezza.
Sono sicura che tutto questo un giorno mi sarà utile.
In poche ore riesco pure a sognare di essere innamorata di un uomo autentico che fa sempre quello che gli pare, che canta fuori tempo e balla male. E lui che ama me a sua volta, senza pretese. Magari rincorrendoci in una città simile a Madrid, con le vie larghe, luminose e piene di vento, dove si può camminare senza mappe e parlare all’incontrario. Dove le corde non si spezzano, la mattina è un elogio alla lentezza, come antidoto basta guardare il cielo e tutto il resto è fortuna.
Con sommo dispiacere però, mi rendono subito conto che si tratta di uno di quei sogni pesanti che bisogna necessariamente portare in due. Un sogno conturbante, pieno di variabili, soggetto a muoversi continuamente nello spazio senza mai trovare una requie. Riesco a dargli persino un colore, che poi è lo stesso del cielo che nutre, accoglie e accompagna. È il colore del mare, dei bagliori all’orizzonte, delle attese, del silenzio e delle distanze.
Il colore che ritrovo dietro le mie palpebre quando sono lontana da casa e ripenso alla mia terra; quello della mascherina che indossava mia madre quando le era concesso entrare nella stanza in cui ho dimorato per molti anni e dell’ago cannula nella mia mano che faceva gridare e gonfiare le vene.
In spagnolo si dice Azul e si pronuncia mettendo un bel po’ di A davanti alla prima, strascicandole, aprendo smodatamente la bocca e tirando indietro la lingua come stessi per starnutire.
Siamo tutti molto piccoli davanti alla misura di questa parola.
In un altro momento ci siamo io e Roberta affacciate alla sua finestra, io fumo e lei pure, parliamo di quanto sia importante stare bene con sé stessi e quanto invece sia complicato trovarsi in sintonia con qualcuno. Mettiamo su un vinile dei The Smiths e lentamente, prendendo confidenza con la nostra interiorità, iniziamo a ballare al centro della stanza con gli occhi chiusi e le mani altrove. Ci muoviamo scoordinate, come stessimo cercando il punto esatto in cui sentirci finalmente comprese.
Magicamente trovo questo luogo ai bordi della notte, mentre decido consapevolmente di percorrere da sola decine e decine di chilometri fatti solo di nebbia e ombre, di strade deserte illuminate dalla luce della luna che non abbaglia ma accarezza, lenisce, cura.
Stanotte l’orizzonte è solamente una linea artificiale inventata dagli uomini per dare un senso al viaggio, alle lunghe percorrenze e ai cuori che hanno fretta.
Il primo cartello stradale che incontro mi pone davanti a una scelta: Roma a sinistra, a destra Grosseto. Non posso fermarmi allora attraverso la rotonda forse venti volte, mentre Dente in sottofondo cerca di dirmi qualcosa che però non riesco a capire.
Nonostante tutto, mi accorgo che il cuore continua a funzionare correttamente e ad emozionarsi per una lunga serie di motivi. Me ne rendo conto mentre cantiamo sopra la voce di Aznavour in un francese imperfetto e sbilenco, quando una decina di passanti decidono di fermarsi per sedersi sugli scogli fradici proprio intorno alle nostre schiene e ai nostri pensieri, mischiando pure i loro sotto un tramonto viola e arancione.
Ritrovandomi a parlare con qualcuno di cui non conosco neppure la voce in maniera sincera e viscerale, riconoscendone la bellezza dalle sottolineature di un libro, tra le linee delle mani o dentro una canzone ascoltata dondolando su un davanzale.
Ho pensieri nuovi e difficili che scrosciano da giorni. Respiro pianissimo, a volte piango un po’. Il mio equilibrio è fragile e trasparente come una foglia sottile, la prima a cadere e ad essere spazzata via.
Quello che mi servirebbe sono un paio di occhi tristi e dei capelli che fanno profumo di vento, dite che è possibile?