La cura
Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d'umore, dalle ossessioni delle tue manie.
Supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare.Franco Battiato
Cura s. f. [lat. cūra]. – Interessamento solerte e premuroso per un oggetto,
che impegna sia il nostro animo sia la nostra attività: prendersi cura di qualcuno
o di qualche cosa, occuparsene attivamente, provvedere alle sue necessità,
alla sua conservazione: avere cura della propria persona, dei proprî oggetti;
avere cura del bestiame, dei fiori, dell’orto.
Non so esattamente cosa renda uomini o donne, ma so con esattezza cosa rende Persone.
Se dovessi, ad esempio, chiudere gli occhi e scegliere con il dito qualcuno che si è preso cura di me negli anni, indicherei Italo Calvino. Se ancora collimo - seppur rovinosamente -con questa realtà che mi circonda lo devo al suo continuo sorreggermi, fin da quando ho iniziato a vacillare come una funambola sul filo del mio personale equilibrio.
Come una bambina che crede alle favole e a chi gliele racconta senza dubitare mai.
Questo pensiero diventa urgente in uno dei primissimi giorni di gennaio, mentre guido senza attenzione lungo l’Aurelia, accanto alla costa discontinua del mare che mi tiene compagnia sbucando piacevolmente e all’improvviso dentro il finestrino sinistro.
Guardo la strada senza vederla davvero, canto a squarciagola la nuova canzone di Diodato e con meraviglia, dentro lo specchietto retrovisore, riesco a scorgere le tracce del mio esistere che si vanno a mescolare con quelle degli altri, con quelle di tutta la gente che è passata lì prima di me che chissà a cosa pensava mentre guidava, quale fosse la sua mèta e quali i suoi sogni più profondi, i silenzi che ha gridato e le urla che ha taciuto.
Ultimamente decido sempre più spesso che l’unica persona di cui io abbia bisogno, sono ancora io. La conseguenza diretta è far scivolare la mia auto sulla strada, abitata da un paio di amiche e uno zaino pieno di cianfrusaglie e ricordi da ricomporre. Un libro da leggere, la mia fedele analogica, il computer già aperto su un foglio bianco di word e un mannello di lettere che il mio primo fidanzato mi spedì quando avevamo quindici anni. Vivevamo lontanissimi, sognando dalle nostre camere separate un casolare al centro esatto della bassa, dove avremmo potuto ascoltare il silenzio della nebbia per lunghissimi periodi e le mondine cantare di ritorno dal Piemonte.
Non vedevamo l’ora di diventare adulti, di poterci viaggiare contro e vivere addosso. Pianificavamo i nostri vent’anni, quelli che poi invece abbiamo perso a rincorrere altre persone, altre città, altri desideri. Lui è stato sicuramente più fortunato, so per certo che ora vive in quella stessa zona dell’Emilia ma con un’altra donna, e oggi mi domando se gli capita mai di pensarmi, se ricorda almeno alcuni dei miei lineamenti, i sentimenti che sono cresciuti insieme a noi e che ci hanno plasmati e modellati a loro somiglianza.
Arrivo in spiaggia e proprio davanti al mare placido e pacificato dell’inverno, sopra le schiene delle mie compagne di viaggio, mi interrogo su cosa significhi il verbo Accudire, così, declinato all’infinito.
Per molto tempo ho creduto fosse una dote naturale propria di ogni uomo, quella di porgere le mani, abbracciare, scaldare, aiutare, cadere accanto a chi è caduto per fargli vedere quant’è bello il cielo dal pavimento pure con le ginocchia sbucciate che tirano.
E sono diventata adulta nell’esatto istante in cui ho capito che non era così.
Qualcosa di incolmabile.
Da allora me ne vado in giro come un ‘perdutamente’ qualsiasi, a cercare carezze, ad agognare attenzioni. Le ritrovo inaspettatamente dentro pochissime giornate: nei fondi dei caffè che Camilla usa come pretesto per sapere se sto bene, se sono felice, se me ne voglio ancora andare.
Quella volta che avevo le scarpe sciolte e Maria Chiara – che conoscevo da tre giorni – si è piegata sulla strada curandosi di legare i lacci ben stretti per non farmi cadere.
Nelle brevissime chiamate di Francesco dentro le quali si mischiano le nostre risate più rumorose e nella parte più interna delle e-mail lunghissime che m’invia dal nord Italia al centro della notte, per sincerarsi che non mi dimentichi mai di lui e che non smetta di amarlo in maniera feroce, nonostante tutto. «Riconosco che nella vita, tra un tiro di sigaretta e l’altro, ci sono incontri e ricongiungimenti, e che ti ricongiungi solo con le vite che ti appartengono. Shadia, è possibile soltanto che io ti abbia ritrovata. Perché, non so né come né quando, ti avevo già avuta. Ecco perché ti ho amata subito e perché subito ti ho fatto spazio: perché già ti amavo e avevo spazio per te prima che arrivassi.»
Capisco finalmente cosa intendesse dire l’altro giorno quel mio alunno con i capelli sempre davanti agli occhi, quando mi ha accusata di amare le parole a tal punto da farmi bastare solo il venti percento di cui è composta la comunicazione. Dice che l’altro ottanta – quello fatto invece di occhi, mani e ginocchia – a me non serve, mentre a tutte le altre persone che conosce sì e quindi tirando le somme quella strana sono io. Grazie.
Di numeri statistiche e ricerche scientifiche non ci ho mai capito niente cocco mio, ho dovuto imparare a salvarmi come capitava. Non sono mai stata brillante, acuta, sagace. Non mi rimanevano che le parole. Quelle se ne stanno lì, ferme, senza pretese. Ci puoi giocare, le puoi cantare, scrivere, scandire, tacere e loro in cambio non ti chiedono niente, loro vivono lo stesso malgrado te. Si costruiscono il nido in altre bocca e altre dita, possono esistere e ristagnare in altre gole infiammate e sotto altre unghie. Io a loro non sono né utile né necessaria. Ma spesso il contrario.
Attraverso di loro ho imparato ad amare in molte lingue diverse. Ho conosciuto città invisibili, lune inaccessibili e stagioni caduche. Le ho ascoltate, ho inteso le loro ragioni, abbiamo altercato animatamente fino al sangue, fino alle botte, ai lividi, al dolore.
Ci siamo però anche molto amate, abbiamo condiviso coperte, notti stellate, luci accecanti, marciapiedi sudici sui quali doversi sedere per forza secondo la legge della gravità.
In punta di piedi come una ballerina longilinea, la letteratura mi ha sconvolta e coinvolta in reati che mai avrei pensato di commettere, negli assassinii di alcuni dei miei stessi mostri, quelli egemonici, preminenti e intrattabili che per lungo tempo mi hanno obbligata ad assaggiare alcune tra le lame più sferzanti dei loro coltelli, spingendo e corrodendo tutto quello che avevo malauguratamente incontrato e fagocitato lungo la mia strada.
Ecco, c’è pure la letteratura a prendersi cura di me. Scusa amica, mai avrei voluto dimenticarti, mai lasciarti in fondo ai miei estenuanti elenchi. Ti ricordo sotto varie forme, sotto molteplici nomi, alcuni impronunciabili, altri eccessivamente gloriosi. Ti ricordo scritta sopra il bordo frontale della cattedra nell’aula cinque, quando qualcuno aveva ben pensato di lasciarti permanente, attraverso un pennarello indelebile, per ricordare a tutti i sogni e i motivi che ci avevano spinti ad ammassarci dentro quella stanza, sopra quelle sedie scomode. «Prima di essere schiuma, saremo indomabili onde».
Mi concentro e invece di pensare alle cazzate faccio una lista delle cose e le persone che hanno avuto la capacità di salvarmi: sono più di quante pensassi, ma sempre troppo poche rispetto alle mie aspettative di bambina e di giovane adolescente.
Nel mio mondo capovolto, mi sciorino al vento di toscana affinché esso faccia il suo dovere rendendomi asciutta come la maggior parte di voi.
Magari chissà, solo così potrei riuscire a capirvi quando tentate di convincermi
che di notte
la pioggia
non cade solo dai lampioni in giù.