La formula del professore
Ogni tanto trovo ancora qualcuno sulla S-Bahn che guarda fuori, esemplari sempre più rari, specie in inverno. Oggi si tratta di una ragazza asiatica dagli occhi perennemente sorpresi o quantomeno attenti, il naso lentigginoso e le labbra socchiuse. Seguo il suo sguardo obliquo e vedo cantieri, uffici, chioschi di kebab, centri commerciali, condomini, caffè più o meno turistici. Le tende blu dei negozi spiccano in un panorama tendenzialmente grigio. Anche il cielo è uniforme e sbiadito, la luce bassa che si riflette sugli infissi metallici e sulle finestre dorate indica la fine di una giornata fin troppo breve. La blue hour a Berlino dura tutto il giorno. Una facciata ricoperta di edera, un distributore fatiscente, un parco giochi per bambini vuoto, le finestre strettissime dell’Humboldt Bibliothek. Da quassù sembra di assistere al diorama del secolo scorso, di un tempo non tanto remoto quanto concluso, la fine è insita in ogni muro scrostato, nelle vetrine chiuse, nei marciapiedi sporchi. I muri di mattoni rossi e le pareti di cemento fanno da fondale per figure geometriche e non che si trascinano per le vie. Fagotti di vestiti si muovono chini per evitare le sferzate del vento e le rare gocce di pioggia, le automobili passano lente, una fila di furgoncini parcheggiati aspetta la fine di tutte le cose. Alcuni edifici passano troppo vicini e mi chiedo come sia viverci dentro; ho l’illusione di scambiare un cenno d’intesa con un uomo in canottiera, dietro a una finestra doppia. Cerco qualche punto di riferimento, e mi accorgo che anch’io non guardavo fuori dal finestrino da troppo tempo, nonostante percorra questo tratto due volte al giorno. Gli alberi spogli riempiono i cortili, le auto i parcheggi. Le biciclette sono forse il mezzo che vedo più spesso, ma quasi tutte legate a pali e transenne, prive di qualche pezzo: la sella, un pedale, una ruota, entrambe. I tram e i bus raccolgono i passeggeri fuori dalle stazioni; qualcuno rimane incerto sui binari e ricambia lo sguardo stupito della ragazza asiatica seduta di fronte a me. Ora si china per estrarre un quaderno dallo zaino Fjällräven, lo appoggia sulle ginocchia, lo apre e cambia espressione. Mi allungo appena per sbirciare il contenuto del quaderno quadrettato e noto delle equazioni di secondo grado che mi fanno sentire vecchio. Penso al professore di Analisi I e II, cerco di ricordarmi le sue lezioni, le sue parole e le sue stramberie. Le dimostrazioni se ne sono andate col tempo, come molti compagni di università. Ridevamo delle sue abitudini alcoliche mattutine, delle sue battute e dei suoi vaneggiamenti fin troppo consapevoli, mentre faceva passare ogni studio di funzione per una formalità. Lo adoravamo nonostante la difficoltà dei suoi esami, per i suoi sorrisi imbarazzati e per il suo pasteggiare ad amari e panini, come fosse uno di noi. E lo era in fondo, perché neanche lui, nonostante le due lauree e una brillantezza che sfiorava la genialità, è sfuggito a una banalissima cirrosi epatica.