La guerra dei mondi
L’intensificarsi dei botti fuori dalle vetrate indica l’avvicinarsi della mezzanotte, qualche lampo di colore illumina l’ufficio. Do un’occhiata al mio collega accasciato sulla sua tastiera, gli occhiali storti sulla faccia, una mano cianotica allungata sullo schermo, e decido di raggiungere l’attico dell’edificio per ammirare l’ingresso di Berlino negli anni ‘20 dall’alto. La città per come la conosciamo ora, la Groß-Berlin, è nata esattamente un secolo fa, sotto la Repubblica di Weimar. Poi sono successe delle cose. Mentre l’ascensore sale lento fino all’ultimo piano, elenco i pro e i contro di lavorare fino a mezzanotte del trentuno dicembre, come se fosse stata una mia scelta. Salgo gli ultimi gradini e mi affaccio sulla notte più luminosa dell’anno. Appena apro la porta dell’attico, vengo investito dai fischi e dai botti moltiplicati per ogni via della metropoli. Mezzanotte è scoccata mentre salivo e ora la città esplode sopra alle migliaia di micce accese: ogni più insignificante via residenziale è invasa di petardi e fuochi d’artificio, le postazioni di lancio distanti meno di dieci metri l’una dall’altra, le armi nucleari puntate verso il cielo più vicino. Qualche gruppo si lancia razzi addosso, qualcuno mira direttamente agli edifici dirimpetto, altri sparano contro la polizia e i vigili del fuoco. Le sirene si diffondono nell’aria, fra un crepitio e l’altro, i fiori nel cielo si moltiplicano ad altezza condominiale, le finestre vibrano, tremano, cedono sotto la pressione delle esplosioni colorate. I residui dei fuochi ricadono nei terrazzi, sulle auto parcheggiate, fra gli stessi autori del lancio o fra i loro rivali. Qualche tenda si incendia, la vetrina di un negozio poco lontano deflagra in una girandola di scintille e schegge di vetro. Penso alle porte automatiche all’ingresso, alle scale e agli ascensori bloccati elettronicamente, alla reception deserta. Mi proteggo istintivamente la faccia e indietreggio di un passo quando una rosa di fuoco sboccia alla mia altezza, il bagliore per poco non mi acceca, i lapilli invadono l’attico cementificato. Spingo indietro gli occhiali sul naso e torno ad affacciarmi giù dalla ringhiera, stringo il tubo con le mani per costringermi a tenere la posizione. Quale posizione? Una posizione indesiderata e ineludibile. Fontane di luci e grida si alzano da ogni angolo dell’edificio, mentre dai tetti delle case emergono funghi di colori e devastazione. Non riesco a distinguere i fuochi d’artificio ufficiali, alla Brandeburger Tor, dalla miriade di postazioni più o meno clandestine che fanno loro concorrenza. Batterie di mortai e casse di cartone lunghe le vie, gli involucri si accumulano sui marciapiedi; qualcuno spara in aria con una pistola a salve, sento persino delle mitragliate che voglio credere un ulteriore effetto pirotecnico. La testa svuotata dal frastuono incessante, continuo a osservare negli occhi la follia umana. Indeciso da che parte stare rimango pavidamente sul tetto, affacciato su quanto di più vicino alla guerra civile abbia mai esperito. Immagino esplodere l’intero edificio sul quale resto solo, in piedi alla fine del mondo, immagino i colori vivaci della notte, le fiamme alte, le grida degli spettatori, gli applausi. I miei occhi lacrimano ma non per le visioni di distruzione. L’aria sa di zolfo e alluminio, fatico a respirare. Nell’aria danzano percentuali di particolato centinaia di volte superiori alla norma, fuori da qualunque scala adatta alla vita umana.