Ginevra mi accoglie con un grande sorriso e mi fa accomodare vicino alla finestra che da sul giardino. Mi siedo su una poltrona azzurro cielo, dalla stoffa lisa ma estremamente comoda, mentre lei va a preparare il tè. Il giardino è un tripudio di fiori, la primavera è esplosa d’un tratto e sono intimamente sollevata dall’aumento della temperatura. Ginevra torna con il tè, si accomoda sulla poltrona davanti a me e mi porge la tazza bianca a fiorellini rosa dicendomi di fare attenzione, che scotta. Guarda fuori dalla finestra anche lei, assorta nei pensieri mentre avvicina la tazza alle labbra. È visibilmente preoccupata ed espira profondamente, come a voler scagliare tutte le preoccupazioni fuori dal corpo insieme all’aria.
“Beh, lei cosa ne pensa? Finirà questa guerra?” rompe così il silenzio. Ci diamo del lei, nonostante tutto.
“Finirà presto, ne sono sicura. Gli americani stanno avendo la meglio” cerco di rassicurarla. Lo sguardo vaga disperato da me alla finestra, prendo la sua mano tra le mie e le sorrido.
“Hanno preso mio marito, i tedeschi. Non so nemmeno se è vivo o morto.” mormora con le labbra tremanti.
Giorgio, suo marito, è un ufficiale dell’esercito di stanza a Roma catturato subito dopo l’armistizio. Si è rifiutato di prestare giuramento alla Repubblica Sociale Italiana, rimanendo fedele al Re, e questo gli è costato la libertà. Adesso è da qualche parte in Germania, prigioniero. Ginevra non ha sue notizie da quasi due anni. È il suo pensiero costante, la sua comprensibile ossessione. Ed è anche il nostro argomento di conversazione principale.
“Buonissimo questo tè” cerco di distrarla. I suoi occhi si illuminano e finalmente le torna il sorriso.
“Lo trovo anch’io delizioso! Non crede anche lei che una buona tazza di tè possa rallegrare anche la giornata più noiosa?”
Fuori dalla finestra un’anziana passeggia nel giardino accompagnata da una donna più giovane. “È Sandra, la vicina del piano di sopra. Ha quasi novant’anni, pensi!” mi spiega. “E quella è la nipote che ogni giorno passa a farle visita. Che cara, non manca mai un giorno!”
Lo sguardo di Ginevra si rabbuia di nuovo. Un pensiero cupo le deve essere passato nella testa. “Chissà se mia figlia farà lo stesso con me, un giorno” si chiede. “Non ci parliamo spesso. Anzi, quasi mai. È arrabbiata con me, lo sento. Da quando è successa quella cosa passa raramente a farmi visita. È molto fredda, parla del più e del meno e scappa via subito. Mi perdonerà?”
Ginevra è una donna rigida. Cresciuta in una famiglia benestante, ha potuto studiare e far studiare la propria figlia. Ma ha anche una visione tradizionalista e vittoriana della donna, per cui l’istruzione è un orpello, qualcosa che serve per collocarsi bene in società e trovare il marito giusto. Per questo trova assurdo che sua figlia abbia dato tanta importanza alla carriera e abbia addirittura osato, a quasi quarant’anni, lasciare il marito. Impensabile che un fatto del genere possa accadere proprio nella sua famiglia. Ginevra ha preso subito una posizione netta e inflessibile sull’accaduto, incrinando così il rapporto con la figlia.
“Credo che sua figlia le voglia molto bene” la rassicuro. “Avete solo visioni diverse. C’è stato uno scontro, questo capita in ogni famiglia, ma sono sicura che col tempo le cose si aggiusteranno.”
Ginevra mi sorride e annuisce, visibilmente rasserenata. La nostra attenzione adesso è attratta da un rumore all’esterno. A Sandra è caduto il bastone e la nipote sta facendo una fatica immensa per riprenderlo e allo stesso tempo continuare a sostenere l’anziana. La scena è quasi buffa e mi scappa un sorriso. Ginevra mi chiede se voglio ancora del tè e le allungo la tazza affinché lo versi. Si blocca però improvvisamente con la teiera a mezz’aria, si volta di scatto verso l’altra stanza e dice: “Ha sentito?” appoggia la teiera sul tavolo e si alza “Mi scusi, è la bambina. Deve essersi svegliata.”
Torna con un fagottino in braccio. Sorride meravigliata da tanta bellezza. È splendente, è la felicità pura. Si siede di nuovo sulla poltrona cullando la sua creatura e cantando una ninna nanna dolcissima. Mi si riempie il cuore di un sentimento caldo e morbido. Una tenerezza che fa quasi male. “Si chiama Rossella, ha sei mesi.” sussurra. “È la mia vita.”
È la sua vita, certo, perché è stata programmata, istruita e modellata proprio per adattarsi alla perfezione al ruolo di madre e moglie. La figlia del notaio Martucci, la moglie del colonnello Morandi. È una madre austera e severa perché austero e severo è il mondo in cui è cresciuta. Ma è una madre che ama, una madre che adora nella maniera più viscerale quella cosetta morbida che ha fra le braccia.
“L’ho chiamata così in onore di Rossella O’Hara. Una donna bellissima, che portamento! Ha visto il film?” mi guarda incuriosita. Annuisco, certo che l’ho visto. “Ero incinta quando siamo andati a vederlo, mio marito ed io” mi spiega. “Sono rimasta folgorata. E in quel momento ho deciso che se fosse stata femmina si sarebbe chiamata Rossella, non avevo alcun dubbio.” annuisce soddisfatta. “Che serata elettrizzante quella! Aspettavamo il film da mesi, era sulla bocca di tutti. In città era già uscito da tempo e lo aspettavamo in paese. Il cinema comunale era stracolmo, c’era anche lei quella sera?”
“Sì, può essere” rispondo accondiscendente. “Molto bello il film, anche se ho preferito il personaggio di Melania. Più calma, più pacata e forse più consapevole di sé.” Ginevra si irrigidisce, strizza le labbra in una smorfia stizzita, lo sguardo di pietra. Capisco di aver fatto un errore, meglio non contraddirla, meglio non distruggere il suo mondo incantato. “Comunque Rossella è un nome perfetto, non poteva scegliere di meglio” aggiungo. “E sono convinta che sua figlia sarà una donna affascinante proprio come l’attrice.”
Ginevra torna a sorridere. Culla sua figlia con una dolcezza disarmante. Con la punta delle dita le accarezza delicatamente la fronte, la bocca, le minuscole mani. È amore fatto materia, è solido, è palpabile. Questa stanza è piena d’amore, io lo sono - piena zeppa di amore fino al midollo - e in questo preciso istante mi pare quasi che tutto il mondo lo sia. Il globo intero, adesso, seduta di fronte a questa donna, mi sembra sommerso da questo sentimento forte, potente e prepotente.
Osservo Ginevra con una tenerezza struggente mista a malinconia. Malinconia per le cose andate, finite e perdute. Per il passato che non potrà più ripetersi. La nostalgia si fa liquida, esce dagli occhi e mi riga la faccia. Mentre sorrido piango. Per me, per Ginevra e per la bambina. Piango perché quella bambina sono io. Io sono Rossella e non ho sei mesi ne sono una quarantenne appena divorziata. Ho passato i sessanta, sono in una casa di cura per anziani con Alzheimer e sto giocando alle signore con mia madre, facendo finta di bere del tè da una tazza vuota. Solo che questa volta la bambina è lei e io ingoio aria, fingendo che sia un tè squisito, solo per farla felice.
Piango perché non posso dirle chi sono, non posso dirle quanto la amo e che l’ho perdonata tanto tempo fa. Semplicemente non posso, la distruggerei. A tratti sua figlia ha pochi mesi, poi trent’anni, poi quindici. Non riuscirebbe ad identificare nella signora piena di rughe che ha di fronte la figlia adolescente. Ed io non reggo di fronte al suo sguardo perso e disorientato. Mi rompo in mille pezzetti, quando non mi riconosce. È che non esisti più, se la stessa persona che ti ha messo al mondo non sa chi sei. Ti sgretoli, evapori, ti fai vuoto a perdere. Chi sei, quando tua madre non ti riconosce?
Quindi sto al gioco, come mi hanno insegnato. Seguo il flusso dei suoi pensieri e non la contraddico. Girovago con lei avanti e indietro nel passato. Mia madre è una novantenne con un superpotere, quello di viaggiare nel tempo. Vive in una dimensione parallela, in una bassa emiliana mentale, nebbiosa e umida. E si sposta in questa foschia di ricordi come una vagabonda inconsapevole. Solo che l’arco temporale si restringe sempre di più. Si sposta sempre più indietro, sempre più nel passato. Arriverà al punto di essere talmente tanto giovane da non avere nemmeno una figlia. E mi priverà anche della gioia ingannevole di vederla cullare un bambolotto con amore infinito pensando che sia io.
Guardo l’orologio ed è il momento di andare. Mi alzo e saluto mia madre, ringraziandola per il tè. Fuori, in giardino, l’anziana con il bastone a braccetto con la giovane passa di nuovo di fronte alla finestra. Chissà se mia madre adesso la scambia ancora per la vicina di casa di un tempo o se, in un momento di lucidità, la riconosce per quella che è, ovvero la sua compagna di stanza da oltre un anno. Mia madre però non l’ha nemmeno notata, completamente concentrata sulla bambola. È il momento giusto per andarmene, penso. La lascio con il sorriso.
Le do le spalle e mi allontano, ma lei mi blocca prendendomi per il polso. “Ma lei cosa ne pensa? Finirà questa guerra?” mi chiede di nuovo con lo sguardo preoccupato.
“Finirà, Ginevra. Finirà.”
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