La mostra delle atrocità
L’intero edificio è ricoperto da un cartellone pubblicitario dalle dimensioni mastodontiche, ancorato alle impalcature dell’ennesimo centro commerciale in costruzione. L’immagine fuori scala ondeggia appena dietro alle folate di vento e raffigura una ragazza con il suo cellulare, il logo gargantuesco in alto a sinistra. La ragazza è immensa e bellissima, di una bellezza semplice e spontanea, frutto di un incrocio preciso di luci e correzione digitale: il sorriso gioioso lascia intravedere denti bianchissimi, il trucco appena accennato serve solo a dare risalto a una pelle priva di imperfezioni, rimosse in post-produzione, i capelli lunghi e lucenti incorniciano quel viso irreale con un lieve movimento verso il proprio pubblico, persino il ciuffo ribelle davanti agli occhi della stessa tonalità del cielo è un dettaglio studiato per conferire più umanità alla posa di una dea, infine la spallina rossa, ferma per sempre nell’attimo prima di scivolare sul braccio sinistro (quello libero), suggerisce soltanto la fantasia erotica che corre giù fino a un seno appena più prosperoso della media, nascosto (o meglio: evidenziato) da una canottiera leggera e ben sagomata. L’immagine taglia appena sotto la curva discendente della gigantesca mammella sinistra, alta tre piani e larga altrettanto. Lo sfondo instagrammistico è talmente irreale nella sua riproduzione digitale che serve esclusivamente come cornice di desiderabilità, oltre che per giustificare la posa (già classica e consolidata nell’immaginario) necessaria all’intera composizione. La scusa del selfie permette di mostrare il viso gioioso della ragazza e allo stesso tempo mettere in primo piano il vero oggetto del desiderio: un cellulare alto una decina di metri, e ancora più nello specifico: la sua tripla fotocamera da quindici megapixel.
In un’epoca di ottimizzazione dei tempi e degli spazi, le innumerevoli impalcature della città-cantiere per eccellenza non potevano rimanere inutilizzate. Visto l’edificio in costruzione in particolare, questa pubblicità sembra una precognizione, un portarsi avanti con i lavori. Davanti al tabellone della ben nota marca di prodotti tecnologici, infatti, si sono assiepati diversi pedoni: la maggior parte sono passanti, ignari dello sfondo urbano nel quale si muovono, abituati a qualunque stranezza della città, altri però guardano in alto quella pubblicità pensata per la distanza e non per la loro prospettiva di formichine; dal basso possono scorgere due seni enormi e rossi, le unghie smaltate di colori pastello che stringono un monolite più che uno smartphone. Il viso della ragazza è indistinguibile da quella posizione, specie per via del vento che sibila fra le impalcature e fa oscillare l’intera struttura, lo smisurato cartellone pubblicitario, le corde che sbattono contro i tubi metallici. Un uomo rincorre il proprio cappello per la via trafficata, le auto accelerano al semaforo, nessuno fa caso più di tanto alle onde che si propagano sul volto della ragazza colossale, sul suo mezzobusto, sull’oggetto più desiderato del continente. Il logo della pubblicità sembra il primo a cedere, ma questo è difficile da dire, dipende dove si fissa lo sguardo. Quando cade il tabellone accade tutto velocemente: una folata di vento più forte, un cigolio, uno strappo, qualche decine di morti e tante auto schiacciate. Si alzano le grida, suonano i clacson.