La musica è partita. La inseguo? Non so se ne ho le forze. Sì ma dove sta andando? Devo scoprirlo. Poso il piede e divento pavimento gelato. I miei muscoli si risvegliano uno ad uno e danzo, è un lento tra me e la superficie. Un fascio di luce urta le mie palpebre ancora chiuse: il mondo fuori sta aprendo le persiane per far entrare l’aria di un nuovo giorno. Vado in cucina e addento i biscotti con l’albero di albicocco davanti a mo’ di sfondo: è primavera e i suoi fiori di bellezza sembrano formare un viso che mi guarda. Aspetto che prenda vita e parli, vorrei sentirmi Alice nel paese delle meraviglie o il personaggio di una fiaba strampalata, di quelle che si raccontano per dormire, perché portano altrove. Metto la tazza nel lavandino con i piatti di ieri sera in disordine. Avevo promesso di lavarli io cazzo, e invece ancora una volta sono cascata dal sonno, o meglio dal sogno, il mio posto sicuro di sempre, la giostra colorata delle mie notti.
Gli altri della casa ancora dormono e c’è silenzio, spalanco le finestre e vedo le ombre nelle abitazioni, ma c’è silenzio anche lì. Sembra l’atmosfera che si crea appena dopo una nevicata, solo che non ci sono fiocchi soffici ad accarezzare le strade e non ci sono persone ad accarezzarsi per le strade.
Devo andare a far spesa, è il mio turno, quindi prendo il portafoglio, le chiavi, gli occhiali e la mascherina che mi copre naso e bocca. È per proteggere gli altri da te, hanno detto, e la stritolante sensazione di essere un potenziale incosciente pericolo per qualcun altro, assale. Davanti al supermercato riconosco la mamma dei gemelli della mia via, quelle piccole pesti sputa-energia con cui ho passato alcuni pomeriggi, e guardando in quella direzione le sorrido. Non ricambia. “È sovrappensiero” mi dico, un po’ delusa. Poi ricordo che il mio sorriso è coperto.
Sono in casa, sempre in casa. Mia madre è al cellulare e continua a intessere le sue relazioni vicine ed oltreoceano, mio padre e mia sorella hanno riesumato fisarmoniche probabilmente dell’anteguerra e si cimentano in un concerto improvvisato. D’altronde sono quasi le sei di pomeriggio: il Paese di cui son parte esce nei giardini, sui balconi, dalle finestre di un monolocale angusto, e canta. C’è chi strilla l’inno patriottico, chi la canzone dell’infanzia, chi si è dimenticato e intona il canto del cigno, chi osserva e basta: solitudini che non vanno a tempo ma si cercano dentro lo spartito impolverato della solidarietà. Occhi esterni hanno decretato che questo poteva riuscire solo in Italia: non so se “riuscire” sia il verbo giusto, ma ho pensato che forse sì, forse è vero.
Il cielo ha mangiato tutte le nuvole questa sera e ci sono delle stelle tremende. Sono sul terrazzo, sì sempre quello della musica e dell’albero di albicocco dai tratti antropomorfi- quasi quasi adesso ci riconosco due occhiaie - e mi godo l’aria svestita, leggera. Ai miei occhi bruni e diversi viene un po’ da piangere: io che ho sempre amato il respiro, ora sono portata a temerlo e questo fa male. Poi il pensiero vola alla gente che si sta spaccando le mani e i nervi per ogni singolo respiro che gli capita davanti e allora il mio viso si fa superficie liquida ma il cuore è caldo, più forte. Mi sento scoperta, non so decifrare i due cerchi gialli che ho davanti, sono le stelle tremende o il gufo che mi pare di aver sentito in qualche notte incauta? Un suono grave rimbomba nel buio ed ho il mio responso. Credo stia intonando un richiamo d’amore, che riceve solo la risposta dell’eco. Mancanza carogna, cosa darei ora per poter addormentare la testa sull’incavo del tuo petto. Quando tutto questo tramonterà, rimpareremo a toccarci e sarà terribile e straordinario, i Greci dicevano deinòs.
Rientro in casa e il letto ancora non mi chiama. Mi faccio guidare da movimenti di quando ero bambina e mi trovo a testa in giù sul divano, le mani sui cuscini per reggermi, le gambe in alto sul muro. Quanto volte ho immaginato di camminare sul soffitto e andare a prendermi un romanzo sugli scaffali della libreria su su in alto, dove, piccolina, non arrivavo nemmeno con l’ausilio di una sedia. Avrei bisogno di una fiaba di quelle strampalate, che portano altrove.
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