La team leader
I primi giorni, la mattina, mi chiudevo in bagno a piangere prima di cominciare a lavorare. Pensavo che non ce l’avrei fatta a resistere un’ora in più, un giorno in più.
Invece ci ho perso 8 anni.
Mi ero laureata da poco ed ero riuscita per la prima volta in vita mia a ottenere quello che volevo: una laurea inutile e bellissima. Ero riuscita ad avere il relatore che volevo io, l’avevo lavorato per mesi per convincerlo dell’argomento e poi le avevo vinte tutte una dietro l’altra: Moravia, Sartre, il corpo, il linguaggio e mi aveva persino fatto passare qualche pagina sul sadismo e il masochismo. Finalmente avevo raggiunto un obiettivo, il mio obiettivo, ma la realtà era un’altra: ero di 2 anni fuori corso perché nel mentre avevo lavorato e no, non ero un genio. Non ero nemmeno carina, forse manco simpatica. Ad ogni modo amavo troppo la letteratura per renderla un lavoro (o almeno questo era quello che mi raccontavo, più probabilmente ero sufficientemente stronza da sapere che quella strada mi avrebbe fatto fare la fame): era giunto il momento di trovare un impiego serio e così accettai la prima proposta, d’altronde quale posto migliore per una neolaureata in lettere di un servizio clienti?
L’obiettivo.
I numeri.
Il mio capo mi incitava ogni giorno a raggiungere l’obiettivo mensile e lo faceva con un entusiasmo tale che stentavo a credere fosse reale. Ci credeva, ci credeva tantissimo. Ciecamente. Quando parlava dell’obiettivo le brillavano gli occhi, le aumentava la salivazione e si alterava la voce. Mi sono domandata più volte se il suo fidanzato sapesse di questa cosa o se segretamente per accenderla la notte le bisbigliasse all’orecchio il backlog dell’anno precedente - che era stato tra i più bassi mai registrati dall’azienda.
Che brivido il backlog.
L’obiettivo giornaliero.
Quello mensile.
E quello annuale.
Il primo mese ho perso 4 kg.
Ad inizio turno avevo già nell’inbox l’email che mi ricordava l’obiettivo quotidiano e la to do list, non facevo tempo a togliermi la giacca che già il capo cominciava a parlarmi delle cose da fare, delle email da rivedere, dei feedback da gestire. A metà mattina ero puntualmente assalita dalla nausea, mi è capitato anche di dover correre in bagno a vomitare – perché è relativamente facile rivoltarsi contro sé stessi. Avrei dovuto ascoltare lo stomaco e ribellarmi a quel sistema malato, ma.
Ma sono cresciuta con l’idea di essere sbagliata, mi sono sempre adattata al resto del mondo e ho imparato ad essere sveglia, ma non troppo; gentile, ma il giusto, soprattutto ho imparato ad essere invisibile. Una minuscola e paziente rotella dentata, una parte ben oliata dell’ingranaggio. Sapevo di poter essere sostituita da un momento all’altro, ma avevo bisogno dei soldi e avevo bisogno di un contratto vero. Nel giro di un anno non ero più stagista, ma avevo un contratto a tempo determinato (una merda, certo, ma meglio che fare i km in pizzeria e beccarmi le mani sudicie del proprietario sul culo): mi occupavo di smistare le chiamate in entrata e in uscita, del mio obiettivo e mi ero guadagnata la possibilità di fare la selezione degli stagisti e seguirne la formazione. L’anno dopo ancora, ero assunta a tempo indeterminato ed ero team leader: il numero del team variava in base ai picchi lavorativi, nei periodi estivi si trattava di due, tre stagisti, settembre invece era un mese pieno e potevano essere sei, sette. Comunque si trattava di numeri umani e gestibili, era una multinazionale, ma l’ufficio italiano era veramente piccolo. Ero team leader ed ero diventata un mostro.
Durante le selezioni mi sforzavo, nemmeno troppo, di sembrare gentile, ma odiavo tutto. Odiavo le facce butterate dei pischelli, odiavo la banalità delle ragazzette che si presentavano in tuta e eye-liner, odiavo le risposte scontate, durante il colloquio sfogliavo sadicamente il curriculum per innervosirli e poi interromperli nel bel mezzo di una frase: “Gradirebbe un bicchiere d’acqua o preferisce un caffè?”.
Avevo una lista di domande da seguire, ovviamente stilata dal mio capo – “Dove si vede tra 5 anni?”Affanculo - ma io facevo di testa mia e il risultato finale fu un team principalmente composto da disadattati sociali e casi disperati. Miei simili. Gente che non era minimamente in grado di raggiungere l’obiettivo, ma che, a mio avviso, sapeva gestire i problemi tecnici e la soddisfazione complessiva del cliente, ma non solo, era gente con cui poter commentare in pausa pranzo l’ultimo libro letto, mentre seduta al desk mangiavo un’insalata scondita con le cuffiette sempre in testa.
Li incitavo come potevo a raggiungere l’obiettivo, ma a quest’ultimo non ci avevo mai creduto nemmeno io, così le
mie email finivano con l’essere scritte in un italiano impeccabile, tanto forbito che l’obiettivo restava sempre in secondo piano e quando li spronavo la mia voce restava piatta, monocorde, sembrava che li stessi conducendo al patibolo. Non ci credevo, non ci ho mai creduto. Ho odiato ogni singolo giorno in quel cazzo di ufficio. Odiavo i colleghi, il capo, i clienti, l’open space, odiavo il trillo del centralino, la macchinetta del caffè, lo sciacquone del cesso, lo scaldabagno sempre rotto, il microonde lercio. Mi sono odiata ogni singolo giorno perché avevo scelto di rimanere solo ed esclusivamente per lo stipendio a fine mese e quando ho azzardato a chiedere il reale corrispettivo economico che la mia posizione lavorativa esigeva si è reso necessario uno snellimento del personale, si è reso necessario sostituire la minuscola rotella dentata che ho sempre saputo di essere. E poi ho semplicemente ricominciato a vivere.