La vera perversione è la routine - cit.
Partiamo con una dovuta precisazione: non sono mai stata una tipa dai rapporti sentimentali complicati; una da relazioni morbose e disastrose. Semmai il contrario.
Ci piacciamo, scopiamo e poi vediamo.
Non mi aspetto molto, forse perché vorrei che gli altri non si aspettassero molto da me. Rifuggo le romanticherie come il diavolo l’acqua santa e sono molto pragmatica nelle questioni sentimentali, contemplo davvero poche opzioni:
sì, no, ciao grazie. Forse non posso permettermi una relazione complicata perché sono già troppo complicata di mio. Non ho mai provato nemmeno la gelosia. A volte mi sono proprio sforzata di provarla, fingendo, devo essere sincera. Perché notavo che un po’ tutti lo sono almeno in parte e perché sembra essere, sotto certi aspetti, una cosa sana nella coppia. Questo non significa che non abbia sofferto lo struggimento amoroso del “ti vorrei qui ora”, però mai con la punta di gelosia del “con chi sarai adesso”. Anche con gli amori finiti: concepisco la mancanza, la nostalgia, la tristezza, la rabbia, ma non la gelosia. E anche nelle relazioni in cui ero la terza incomoda non ho mai pensato all’altra come a una rivale (forse perché la minaccia ero io?), come una di cui essere gelosa o, peggio, da odiare. Io l’altra l’ho sempre capita e anche giustificata. L’altra, a modo mio, l’ho sempre difesa anche quando me ne parlavano male, e non per chissà quale moto femminista, ma semplicemente perché non avevo proprio nulla da recriminarle.
Non ho mai preteso nemmeno di essere l’unica nella vita di qualcuno. Veramente. Anche qui, forse sempre per il motivo di qui sopra, non richiedendo io l’esclusiva, non potrai mai chiedermela nemmeno tu. Perché tu sei unico sotto certi versi, esattamente come un altro è unico sotto altri: questo è il nocciolo della questione. So di essere speciale, proprio perché anche tutti gli altri lo sono, quindi non ho bisogno di avere l’esclusiva, perché l’unicità è già sottintesa nel rapporto in sè tra due persone. Non ho bisogno di averne prove concrete, lo prendo già come un dato di fatto. È tutto molto lineare.
Da tutte queste, per me, estremamente semplici verità ne deriva l’essere vista come sfuggente.
Non mi prendi, non mi fermi e non mi capisci.
Ti accanisci sul capirmi, fermarmi, trattenermi e, allora, io vado.
Paradossalmente se tu mi lasciassi andare forse potrei valutare di restare per sempre. Ma soprattutto comincerei a volerti sempre tra i piedi – e questa costituirebbe davvero una bella novità.
Offrire i polsi per farsi legare è bizzarro. Non ho dubbi o esitazioni, ma stupisce riscoprirmi così serena nell’allungare le braccia. Stupisce la determinazione nell’affidarmi a un altro, che non sono io.
Offrire i polsi, con naturalezza e trepidante attesa, è la mia resa. Io che non cedo mai, che non torno sui miei passi, che tiro dritta, io che porto avanti mille cose senza perderne di vista nemmeno una, che organizzo, pianifico, che ho le manie di controllo.
Tra le corde addormento l’anima, cullo i miei demoni e mi risveglio più leggera. Tra le corde rinuncio al controllo su tutto: sul corpo, sulla mente e su ciò che mi sta attorno.
La corda scivola sui polsi e non ho dubbi, è una sensazione piacevole, che ricerco e che voglio. Quando lega il primo nodo comincio finalmente a rilassarmi – penso che anche questa settimana è andata, che posso nuovamente concedermi di scomparire nodo, dopo nodo, giro di corda, dopo giro di corda. Anche mentre prosegue e sistema con cura la tensione e i nodi, anche quando, per inesperienza, strattona: ci sto.
Poi lentamente è come salire in alta quota: l’aria rarefatta, il corpo, inizialmente elastico e cedevole, si fa via via più pesante, smette di collaborare, i pensieri si dilatano, rallentano e, infine, svaniscono. Ed è come stare da soli sulla vetta. È silenzio. È l’orizzonte ingoiato che si fa buco nello stomaco. È immenso: restare sospesi e farsi foglie tremule, ma con tutto il peso dell’essere errati e erranti. E dalla cima innevata sprofondi nel più oscuro degli abissi, giù giù, in fondo, a raschiare tutto quello che rimane. È come gettarsi da un ponte.
Respira.
Riesci a respirare? Inspira, espira.
Mantieni la calma: inspira, espira.
Un’altra corda, un altro giro: il corpo che si ribella, la testa vuota che non controlla più nulla, solo l’istinto, solo la resa. Arrenditi.
Respira.
Inspira, espira.
Non è finita. È una lenta discesa, gli arti cominciano a indolenzirsi, la corda è tremenda, non lascia scampo, non c’è spazio, il desiderio di liberarsi come un tremito in tutto il corpo, ma ancora c’è solo la resa. Ancora, non c’è altro che la resa nel corpo costretto all’immobilità.
Lasciarsi legare significa spegnere una parte razionale, vuol dire disattivare il comando sul proprio corpo. E questa è la parte più difficile. Perché istintivamente il corpo non vuole, non può farsi legare. Inconsciamente avere mani e piedi legati significa essere spacciati. Il corpo lo sa. E ingaggia una strenua battaglia per scappare.
Ho la fortuna di avere un corpo flessibile e abbastanza snodato e penso sinceramente che sarebbe un peccato non metterlo a disposizione, perché concepisco il corpo come un terreno di condivisione, che mi appartenga fino a un certo punto e che sia, di fatto, abbastanza inutile finché non viene messo in relazione con gli altri corpi, se non viene usato per gli altri e con gli altri. Il corpo tutto sommato è un idealista egualitario; tutti, ma proprio tutti, espletano quotidianamente le proprie funzioni corporee - dal povero cristo senza una casa al miliardario, dal giovane al vecchio. Tutti i corpi attraversano gli stessi passaggi: nascono, crescono, si ammalano, guariscono, invecchiano, muoiono; il corpo è comunista perché non puoi mai considerarlo singolarmente, va sempre inscritto nella pluralità dei corpi, il suo dialogo, la sua essenza, parte dalla totalità dei corpi. E tutti i corpi rispondono alle stesse leggi. Un corpo solo non è nulla. Un corpo è tale solo quando entra in relazione con quello altrui perché la sua legittimazione arriva dagli altri.
Mi lega i polsi e mi lascio andare, mi faccio, tra le sue mani, forma da plasmare, rinuncio al soggetto per farmi oggetto. All’inizio è facile essere solo un oggetto, non dover agire, decidere, pensare. È facile essere una forma, è facile rinunciare a sé quando il sé è proprio quello che ti ammazza ogni giorno. È quello che ti ruba il sonno la notte, è quello che ti nega la serenità, è quel moto ondoso che ti fa scappare per tornare per poi partire ancora. È facile rinunciare a sé quando vivere è sempre stato troppo complicato.
C’è un momento in cui le corde stringono a un punto tale da pensare che sia insopportabile. Da pensare che - basta non se ne può davvero più: liberami, slegami, lasciami -
Allora inspiro con calma, mi concentro sulla respirazione, lasciami, ma so che vorrei mi tenessi legata qui per sempre. Tienimi e non mi lasciare. Ed è l’unico momento in cui posso concedermelo.
La corda entra nella carne e penso di non farcela, ma poi continuo a respirare e penso a una canzone, cerco mentalmente a qualcosa di ritmato che possa darmi un tempo da seguire col respiro, mi concentro sul ritmo. Almeno fino a quando il dolore mi consentirà di evadere mentalmente.
Farsi legare significa sottostare al desiderio altrui, annullando la propria volontà. Significa chiudere gli occhi, non restituire lo sguardo e così, come direbbe Sartre**, farsi oggetto. Nel momento in cui il soggetto non risponde più con lo sguardo diviene oggetto, allora l’altro, l’altro soggetto può appropriarsene liberamente. E gli oggetti si possiedono. Allora si diventa oggetto posseduto. Allora il corpo non è più una restituzione dell’altro, ma diventa un involucro vuoto, è l’annientamento, l’abisso oscuro dell’anima, è il segreto svelato dell’uomo che mangia uomo. Capita di pensare “vorrei mangiarlo”, soprattutto riferito alle persone amate, esistono particolari fisici altrui che sono di una bellezza sublime e di cui vorremmo letteralmente nutrirci. È un desiderio molto primitivo che fatica a emergere, che fatichiamo ad ammettere, ma esiste.
E se esiste il desiderio di mangiare l’altro, ovviamente c’è anche il suo contrario, il desiderio di lasciarsi divorare. Sbranare.
Sartre sosteneva che l’attivazione del possesso risiede nello sguardo attivo che si rivolge all’altro, ma qui, nello shibari, c’è solo uno sguardo ed è quello del rigger; allora il legato dovrebbe in teoria divenire una forma pura, un oggetto. Ma che ne è della sua pelle? Che ne è della sua carne? Che ne è del dolore? Il bottom sospeso è già oggetto o ancora soggetto? Il legato in quel momento è più presente che mai, è in ogni fibra del suo corpo e avverte il dolore in ogni parte del suo corpo, ma non solo. In quei minuti il corpo del legato è un tutt’uno col suo pensiero. Il pensiero non può divagare perché c’è un corpo straziato a richiamare tutte le attenzioni. Mente e corpo fanno pace e diventano presenti l’una per l’altro. Come se finalmente potessero vedersi, abbracciarsi e amarsi senza vincoli. Fanno all’amore nella stessa persona e sono una cosa sola.
Apparentemente il rigger, con le corde, lega il bottom, lo piega alla sua volontà, ma in realtà così facendo si lega indissolubilmente all’altro e alla fine gli opposti costituiscono una cosa sola, alla fine l’unico desiderio che ci accomuna tutti è trovare un po’ di quiete, qualche istante di tregua, di pace.
E il silenzio nella disperazione.
*cit. Moana Pozzi
**ndr: “L’essere e il nulla”, J.P.Sartre- ahimè qui accennato malamente e grossolanamente perché non si tratta di una disquisizione filosofica.