Labirinto
Correva velocissimo, le mura bagnate di umido, altissime, nascoste da siepi di piante tropicali. Sentiva le voci dei suoi compagni che correvano come lui smarriti tra i corridoi e le siepi. Si chiamavano a vicenda, ma nessuno riusciva a vedersi, nel buio tra le mura.
Il labirinto era enorme e la sfida era quella di arrivare al centro, dove avrebbero trovato un premio, un suggerimento per la tappa successiva della caccia al tesoro. Erano divisi in tre squadre da quattro persone. Il buio della piana risaliva con forza tra le colline e le montagne e si riuscivano a vedere solo le stelle. La luna era nascosta da nubi vischiose. Qualcuno era riuscito a trovare una breccia tra le mura e correre assieme ad un compagno. Non era l’ambiente ideale, la notte. Creava tra i partecipanti all’ evento serale una certa ansia da prestazione unita a quella di smarrimento.
Più gridava, più il sangue gli saliva alla testa e le mani tremavano. Aveva sempre detestato i labirinti e non ne aveva mai compreso il fascino storico e paesaggistico all’interno di un parco di una villa come quella, ad esempio. Amava gli spazi aperti, lanciare le braccia al cielo e perdere gli occhi nel blu. Le foglie di quelle strane siepi stavano iniziando ad irritarlo: riusciva a vedere solo quelle e nient’altro che quelle. Non c’erano indicazioni per il centro. Il loro responsabile del campo estivo, molto esperto, si guardava bene dal parlare facendo capire da dove venisse la sua voce.
Sentì improvvisamente il pianto strozzato di Alessia, molto vicino a dove si trovava lui. Qualcuno era riuscito a calmarla e portarla fuori di lì, forse. Inghiottì la saliva che cominciava a salirgli dalla gola insieme ad un gusto amarognolo. In silenzio in un angolo, vomitò tutta la bile che aveva in corpo. Fece tre lunghi respiri e riprese a correre, cercando di ragionare. Dopo alcuni minuti si ritrovò davanti la sua chiazza di vomito.
Ora non riusciva neanche più ad urlare ai suoi compagni; il cervello gli stava risucchiando gli occhi che fissavano la chiazza di vomito acido sul selciato. Riprese a correre, ora in un’altra direzione e ancora più forte. I denti battevano e si piantava le unghie sui palmi. Se si fosse potuto scorgere il suo volto nel buio, si sarebbe visto un cencio bianco con gli occhi incavati, le braccia penzoloni. Pensava che da lì non sarebbe più uscito, che la sua vita sarebbe finita quella notte tra nuvole asfittiche e piante tropicali. Non riusciva a sentire che un fruscìo di foglie, un brezza gelida. Dio, perché aveva deciso di andare a quel campo di volontariato? Lui voleva solo rendersi utile, i giochi di squadra non gli erano mai piaciuti. Aveva sempre avuto un’indole solitaria, parlava solo se necessario e questo a volte, anche a scuola, gli causava non pochi problemi con i compagni di classe. Ora era andato lì, in mezzo al verde, con i suoi occhiali storti si era posto davanti una sfida coraggiosa. Avrebbe potuto rimanere in dormitorio, non partecipare alla caccia al tesoro. Sarebbe morto, così, tra il suo vomito e le chiazze di cielo scuro. Le mani sudate toccavano il viso. Le ginocchia sbucciate. Era già inciampato sei volte. Le aveva contate. Teneva il conto di tutto: degli angoli che svoltava, dei battiti del suo cuore.
La fronte imperlata di sudore, continuava la corsa imperterrito, smarrito. La caparbia del panico gli offuscava la vista assieme alle gocce di sudore. Non sentiva più niente, il sangue colava dalle ginocchia, il bruciore teneva vigili al minimo i sensi. L’ingegno e la tattica si ottundevano lentamente. Ogni angolo del suo corpo smussato perdeva vitalità, ma la corsa non si fermava. La gola arida, sentiva solo acido salirgli dallo stomaco, il ventre si richiudeva in se stesso. Le orecchie pulsavano sanguigne nell’umidità ovattata. Nei suoi pochi anni di vita non si era mai sentito così solo. Letteralmente perso. Non era un ragazzino molto espansivo, non lo era mai stato; aveva trovato nel campo estivo ambientale un buon compromesso per imparare qualcosa e anche per fare amicizia. Quei ragazzi erano stati in quelle settimane la sua casa nella cucina comune e nelle camerate, durante le giornate all’aperto a ramazzare il parco. Li stava pensando intensamente, uno a uno, mentre proseguiva la sua corsa frenetica.
Si trovò di fronte nuovamente la chiazza di vomito. Gli occhi pietrificati e le mani gelide, vomitò di nuovo sopra la chiazza lasciata prima. Sentiva le ginocchia tremare, la testa pulsare. Non riusciva più a muovere un muscolo. Un flebile gemito uscì dalla sua gola, come un rantolo, in mezzo alla bile. Chiuse gli occhi e cedette al suolo duro.
Lo recuperarono quando tutti gli altri ragazzi erano già usciti. Lo guardavano schierati, con gli occhi sgomenti. La sua maglietta era imbrattata di vomito e il sangue colava dentro le scarpe. Il responsabile del campo estivo lo portò immediatamente in infermeria.
Si svegliò il giorno dopo, tra la nebbia degli ansiolitici. Una lacrima scendeva dall’occhio destro sul viso bianco.