Entro in cucina e mi getto sulla bottiglia d’acqua come se fossi reduce da una missione suicida nel Sahara. Buona, fredda. Pulisce la bocca, lo stomaco, i reni. Chissà se lava via anche la merda dell’anima, mi chiedo. Ne bevo quasi un litro, fino a perdere il fiato. L’acqua, prima di tutto. C’è chi fuma, chi si attacca alla vodka. Io sento invece questa impellente necessità di bere fino a scoppiare, fino ad avere la nausea. Che poi va a capire te se la nausea mi viene per l’acqua o per tutto quello che succede prima.
Paolo è di là che si prepara. So che ha fretta, ha una call importante con clienti importanti riguardo argomenti ancora più importanti. E’ tutto così urgente, fondamentale, vitale. Mi chiedo se si rilassa mai, se si ferma mai a guardare un tramonto o se fa mai una passeggiata solo per il gusto di camminare. Ha parlato tutto il tempo di lavoro, numeri, target da raggiungere. Uno sforzo enorme mostrarsi interessata.
L’intimità delle parole è pericolosa. La parola ti penetra le orecchie, scava un tunnel fino al cervello e lì rimane sopita, quasi inavvertita. Una bomba emozionale pronta a saltare in aria al minimo accenno di Signora Empatia. C’è il rischio che io senta l’ansia di Paolo per i risultati, il suo nervosismo per la riunione. E non voglio sentire. Voglio rimanere fredda e asettica. Voglio fare il mio lavoro con il distacco di un chirurgo durante un intervento a cuore aperto. Ecco lì il ventricolo, l’aorta, la valvola. Ecco qua una tetta, un culo, una fica.
Il dramma è che parlano tutti, a una certa. Li vedi all’inizio che arrivano un po’ impacciati, quasi timidi, con un pizzico di diffidenza. E poi scoppiano come palloncini pieni di aria, gonfi di parole. E vengo travolta da una marea di informazioni, nozioni, dettagli assolutamente non richiesti.
Figli adolescenti con la rabbia nei denti e l’erba nelle tasche.
Mogli che non sono più quelle di una volta.
Divorzi che non cambiano mai.
Capi nazi-narcisisti.
La spia del motore accesa.
Il colesterolo alto.
La mensa che fa schifo.
Non me ne frega niente, cristo santo. Ma proprio niente. Zero meno. Sono una escort, non la vostra psicoterapeuta.
Paolo si è vestito e mi raggiunge nel soggiorno. Si allaccia il cappotto e continua a parlare, ovviamente. Continuerà a parlare anche quando nessuno lo ascolterà? Parla anche in ascensore, nell’atrio, sul marciapiede, in auto? Metto su il sorriso d’ordinanza e lo accompagno alla porta. Ciao daddy, in bocca al lupo per la riunione, alla prossima settimana tesoro.
Questo lavoro non mi piace. Ma nemmeno lo detesto. Che poi nessun lavoro mi piace, del resto. E’ un’attività come un’altra e, come per tutte le cose, ci si abitua. Brutta bestia, l’abitudine, travestita da migliore amica. Ti fa assuefare anche alle cose peggiori. Mia nonna lavorava nei campi, per dire. Campi di altri, volendo essere precisi. Prima la semina poi la raccolta. Patate, carote, cavoli. Piantava semi e raccoglieva mal di schiena. Non c’era una vertebra che non le facesse male. Era diventata un barometro umano: se il dolore era alla cervicale, umidità e nebbia in arrivo, se era all’osso sacro, ricordati l’ombrello. Mia madre ha fatto il grande salto di qualità. Da stare chinata sui campi a stare chinata su una linea di montaggio. Almeno era all’asciutto. Ha passato vent’anni ad avvitare insieme pezzi di metallo. Tutt’ora, in pensione, capita che sogni di essere completamente da sola su una linea infinita di cui non vede inizio e fine e lì viene sommersa a velocità sempre più sostenuta da parti di metallo da unire insieme pena la morte. Una Charlie Chaplin in un incubo surreale.
Il fatto è che, a una certa, ti stanchi e ti chiedi realmente che differenza ci sia tra vendere la colonna vertebrale, le mani o i genitali. E ti adegui al principio della minima spesa massima resa. Cosa cambia se affitti una parte del corpo invece di un’altra? Perché di affitto si tratta, un uso a tempo determinato e dietro pagamento. Quello che realmente vendi è il tuo tempo, qualsiasi lavoro tu faccia. Che siano otto ore in ufficio o un paio in un letto, quel tempo lì non lo avrai mai indietro. E non esistono scontrini, resi o reclami. Siamo un ammasso di automi ubbidienti in fila indiana che vendono il loro tempo per comprare cose che qualcun’altro ha prodotto vendendo a sua volta il proprio tempo. Quindi ti dico io la differenza tra tutti gli altri lavori e il mio: che affitto un pezzo del mio corpo, come tutti, ma vendo molto meno tempo.
Alla fine dei conti lo scarto è puramente morale. Ma cos’è morale? Che vuol dire esattamente? Su col morale, sono giù di morale, i danni morali, il vincitore morale. Se i valori nei secoli cambiano, se cambia il concetto di bene e di male (male per chi poi? Per me, per te, per loro?), se tutto viene sconvolto, ribaltato e rimescolato diventa pressoché impossibile giudicare il lavoro più vecchio del mondo. Quando tutto cambia, come classifichi l’unico lavoro che non cambia mai? Nel momento in cui il bene e il male impallidiscono e il bianco e il nero assumono gradazioni diverse e infinite, io semplicemente scelgo una tonalità di grigio. Scelgo il mio tempo. Scelgo me. Questione di priorità.
Alessandro invece ha scelto il potere, ha preferito il dominio. E questo costa tanto, tanto tempo. Così tanto che dopo aver passato quattordici ore in un ufficio di lusso grande come il mio bilocale a comandare quaranta persone, a pretendere e a decidere, non ha la minima capacità fisica e mentale per costruire una relazione. Ha il denaro per comprarla, però. Alessandro è il mio prossimo cliente, sarà qui fra un paio d’ore. Di solito arriva la sera, dopo il lavoro, talmente stremato che la maggior parte delle volte l’unica cosa che vuole fare è togliersi la cravatta e fissare il soffitto. Nelle serate più frizzanti arriviamo addirittura a guardare Netflix. Mi paga per la compagnia, insomma. Alessandro ha scelto il potere, ma questo, al sontuoso banchetto della vita, è arrivato accompagnato dalla solitudine.
Per Alessandro sono una fidanzata temporanea e in prestito, una parodia del calore umano che ti aspetta a casa la sera. Per qualcuno invece sono una sottomessa, una debole che si piega al concetto patriarcale di donna oggetto. Per altri ancora sono un’approfittatrice, una bocca di rosa che sfrutta le debolezze altrui. Una reietta da esiliare e nascondere. E non c’è modo di sfuggire a questa classificazione che odora di giudizio e puzza di schedatura. Devi decidere: o martire o santa o puttana. Insomma, scelga, signorina, dove mette la x? Ah, signor giudice, non so proprio dove collocarmi. So solo che lavoro due giorni a settimana e in quei due giorni guadagno quanto guadagna un’impiegata in un mese. Veda lei. Io mi aggrappo alla razionalità delle cifre, alla logica dei dati, alla purezza dei numeri. La matematica non è mica un’opinione. Minima spesa massima resa, dicevo.
Controllo che tutto sia pronto per l’appuntamento con Alessandro. Lenzuola pulite, prosecco in fresco, flûte sul tavolo. Do un servizio luxury io, mica si scherza qua. Finisco di prepararmi, giusto un filo di trucco e sono pronta. Nell’aria vibra il suono della tromba di Chet Baker e decido di lasciarlo su. Anche Alessandro ha un debole per il jazz, lo rilassa. Suona il campanello, è arrivato. Mi incammino verso la porta ma un pensiero mi blocca. Una scintilla nella testa che risuona come urgente, come imprescindibile. Ho dimenticato di mettere la mia bottiglia d’acqua in frigo. Torno indietro, non posso aprire finché non ho la mia salvezza pronta per l’uso, il mio balsamo. L’acqua, prima di tutto.