L'avvelenata
Sono le dieci di mattina e per le strade di Roma sento l’odore che c’è nelle notti d’inverno a Bologna in Via Castiglione. Basta Sottocasa di Lucio Dalla negli auricolari e sulla maglietta una macchia di vino della sera prima. Oppure sarà la mancanza feroce che sento ovunque nel mio corpo, dei gatti in Piazza Verdi, della nebbia sopra i palazzi, delle confessioni a bassa voce seduta sul bordo della cucina di Ilaria, dei viaggi verso Reggio e Ferrara tagliando la bassa esattamente a metà, delle attese e del ragazzo che suona la chitarra in piazza all’ora del tramonto, quando c’è quella luce speciale che pur viaggiando molto non ho mai più ritrovato in nessun altro luogo.
Mentre torno a casa, schiacciata dentro l’ultimo vagone della metro A diretta a Termini, con gli occhi gonfi di chi ha sentito parlare del futuro per tutta la notte, ho finalmente individuato il mio problema più profondo, situato al centro esatto della mia persona, proprio lì dove si sviluppano tutti i significati della parola ‘equilibrio’: sono incapace di mettere radici e avere fissa dimora.
Ed ecco che a quasi venticinque anni sento che mi manca tutto.
Mi sento continuamente violentata da segni suoni e immagini che tornano a disturbarmi proprio quando torno a sembrare placida.
Stamani ad esempio scrivo a qualcuno che mi manca aspettarti davanti all’albero di Natale in Piazza del Nettuno per poi vederti arrivare in lontananza da sotto gli ultimi portici prima delle strisce pedonali, tu con il tuo zaino rotto e io che sudo sotto la giacca; rivedere Ilaria e Gabriele esattamente dove li avevo lasciati mesi prima, camminare fino a San Luca piangendo e riscoprendo una qualche misura di misticismo religioso dentro di me, il teatro gremito in attesa de Le luci della centrale elettrica e sentirsi per la prima volta dopo molto tempo parte di qualcosa, rivedere la mia vecchia casa da un’altra prospettiva lontanissima, salire per la prima volta in quella di Dalla con la bocca serrata e gli occhi umidi, riconoscere una frase di Andrea Pazienza disegnata sul muro di fianco all’università. Mi manca Bologna. Tre parole, almeno quindici sensazioni diverse sotto gli occhi semichiusi.
Sono anni che mi ritrovo a festeggiare i capitoli degli altri che si chiudono mentre chiudono forzatamente anche i miei, e io puntualmente le mattine seguenti mi ritrovo sempre da sola a fare i conti con tutto quello che avrei voluto non finisse mai. Perché è bello scappare, crescere e andare via, ma sarebbe stato bello anche poter premere un pulsante per fermarsi un po’.
Chissà quante vite dovrò ancora perdere prima di vivere quella che desidero.
Stanotte è toccato a voi. Se me l’avessero detto cinque anni fa non ci avrei creduto: siete tutti così spaventati amici miei, così impauriti rispetto a quello che accadrà. Vi vedo che vi tenete le mani a vicenda per non perdervi, per non cadere, per non ritrovarvi soli, perché la solitudine è matrigna, ti convince, ti assorbe, ti isola come una scarica elettrica e credo che in assoluto sia la più bieca malattia della nostra generazione. Io intanto vicina alla finestra fumo l’ennesima sigaretta della notte, quella che non si sente neanche più, un vizio, quando la gola ormai si arrende a tutto quello che la costringiamo ad ingoiare. Mi guardate tutti male perché non riuscirete mai a capirmi: mi sento eccitata al pensiero di andare via e di dare un nuovo nome alle cose, quando immagino di incontrare labbra screpolate che teneramente mi racconteranno chi sono state quando non c’ero, molto prima di conoscermi.
Noi che la prendiamo sul personale viaggiamo pesanti. Ci lamentiamo ma alla fine ci piace così.
Intanto le luci nelle case degli altri iniziano ad accendersi, sentiamo i rumori dell’alba, quando la gente si alza e va a lavorare. Che è rumore di tacchi, di gas che s’accende con fatica sotto la moka, di baci piccoli e stoviglie che litigano tra loro urtandosi.
«Ecco appunto, il futuro».
Chiudiamo le finestre per non far scappare le nostre voci, per farcele rimbombare meglio addosso, per farle diventare un’eco eterna. Dalla chitarra escono delle note che automaticamente si trasformano in canzoni, i piedi iniziano a giocare con il pavimento, cantiamo L’avvelenata di Guccini come vecchi ubriachi in un’osteria del centro, a gridare e marcare i versi più veri, a rivendicare i nostri successi dentro quella frase che dice «son della razza mia - per quanto grande sia - il primo che ha studiato».
Inizio a stilare una lista di tutto quello che non potrò chiudere dentro i miei bagagli ma che vorrei comunque tirarmi dietro per quando inizierò a piangere in un altro dialetto, ed ecco che spontaneamente parte una canzone di Battisti che mi bussa alla porta con tutta la malinconia che si è sempre portato dietro.
È questo quello a cui penso quando mi chiedete a cosa penso e perché me ne sto zitta in un angolo della stanza. Vi guardo, osservo di nascosto i vostri piccoli gesti, i tic che non sapete di avere, come un ragno con la sua ragnatela intrappolo quello che reputo necessario senza farmi scoprire, quello che alla fine mi sfamerà quando non ci sarete più.
Ma tranquilli, mi sono accorta che posso sopravvivere a tutto, a ciò che era infinitamente bello e anche a ciò che mi ha distrutta. Ma state tutti attenti quando m’incontrate che con me porto sempre uno scampolo d’estate nella borsa: so quasi sempre come soffocare le mie tristezze.
Capisco che troviate assurdo che passi molte delle mie giornate da sola con le cuffie e il computer sulle ginocchia a scrivere, che si potrebbe rivelare una perdita di tempo, ma è per me l’unica maniera per restare in vita: ricordare, stare sempre in equilibrio su un filo leggerissimo, auto sabotarsi, condividere impellenze, mugugni e verità assolute, scrivere di persone che non ti leggono nemmeno più perché hanno paura della verità, quella che tengono ben nascosta dietro agli specchi. Quelle persone dove non tocchi, proprio quelle che piacciono a me, che sono maestre d’amore, che dopo le curve si aspettano sempre il mare.
Ripenso indecentemente a te per l’ultimissima volta e al pomeriggio in cui mi hai chiesto dov’è che precisamente andrebbero messe le virgole, mentre nella borsa avevo un libro di Pasolini e una musicassetta di Rino Gaetano come porta fortuna per qualcosa che non ricordo più, quando poi a fine giornata mi hai mandato un messaggio con su scritto: bel pezzo, continua a scrivere.