Le cose andavano bene
Le cose andavano bene.
Da qualche mese, finalmente, le cose sembravano andare per il verso giusto. Aveva trovato posto come magazziniere: sei giorni a settimana, otto ore al giorno, la pausa pranzo in mensa e poche ore di straordinario il sabato e il lunedì. Quando rincasava faceva tempo a passare in tabaccheria, per giocare qualche numero sulla ruota di Napoli, prendere il pane e fare due chiacchiere con il giornalaio all’angolo; poi la doccia e la cena in cucina, guardando la tv.
Le giornate scorrevano lente, senza intoppi. Seduto sul muletto, ripeteva all’infinito le stesse azioni: caricare, sollevare, trasportare e scaricare. Il magazzino era grande, diviso in tre sezioni, gli altri due colleghi li incrociava solo in pausa pranzo, poi c’era il cambio turno e venivano altri tre ragazzotti, sempre abbronzati, perché lavoravano di notte e passavano il giorno al mare, a dormire. Lui era il più anziano. Non era poi così vecchio, ma la camminata sbilenca, le spalle grosse che lo appesantivano e i capelli grigi gli conferivano più anni del vero. A lui questo nuovo impiego piaceva molto. E, soprattutto, gli serviva. I debiti di gioco si erano portati via tutto, aveva perso anche la moglie e la figlia. Negli ultimi anni era saltato da un lavoretto all’altro, sfruttato, malpagato, fregato in ogni modo dagli stessi furbi che lo fregavano da una vita. Aveva fatto il buttafuori per il pub del porto, scaricato le cassette al mercato del pesce, ma anche quelle pesanti per le edicole, alle 4.00 del mattino. Aveva venduto mazzi di fiori agli angoli delle vie del centro, orrende cover del cellulare in periferia, ma non si era mai arreso. Finchè un giorno, mentre guidava verso Roma un furgone dal contenuto ignoto, gli era preso un gran dolore al braccio sinistro. Si era dovuto fermare, abbandonare il veicolo in una piazzola e, allontanandosi, chiamare il 118.
Un infarto.
L’amico che gli aveva procurato il lavoretto gli aveva detto che doveva mettere la testa a posto, che avevano rischiato tanto con quel carico e non poteva più pensare di campare così, alla giornata ‒ lo avrebbe aiutato lui, gli avrebbe trovato un posto tranquillo. E così era stato.
La mattina faceva colazione a casa, con moka e biscotti, poi raggiungeva lo stabilimento in bicicletta, attraversando campi incolti che un tempo costituivano la zona industriale. Era curioso di scoprire se sarebbero spuntati i papaveri a giugno.
Stava sempre da solo, anche al lavoro. Ogni tanto sul muletto si portava appresso una radiolina, per ascoltare un po’ di musica e tenersi aggiornato. Nella sua area di magazzino non c’era anima viva, giusto qualche ratto. Avevano avvisato il proprietario, che non aveva fatto nulla, allora coi ragazzi avevano messo del veleno in alcuni punti, ma lo stesso, quando girava dietro i bancali, gli capitava di intravedere le code tese dileguarsi nell’ombra. Non c’era nulla da mangiare, solo cartoni.
Un sabato pomeriggio, verso fine turno, dopo aver sollevato un bancale, fece qualche metro in retromarcia, poi ripartì facendo per svoltare nella prima corsia a sinistra, ma dovette interrompere la manovra perché fu chiamato per la verifica di un carico in partenza. Quando tornò vide il ratto schiacciato a terra, dietro il muletto. Doveva averlo investito con la retro, ma non aveva sentito nulla. Si avvicinò e gli diede un frucco leggero con lo scarpone. Il topo non si mosse. Allora, si accovacciò per osservare meglio, forse, in qualche modo, si sarebbe ripreso. Allungò l’indice, sfiorandolo.
No, non c’era più nulla da fare. Giaceva immobile e schiacciato, le zampe anteriori ritte e rigide. Andò a cercare una scopa e una paletta. Chiese ai colleghi, ma si misero a ridere. Andò su, in amministrazione, a chiedere, ma, nello sconcerto generale, nessuno seppe dirgli dove fossero gli attrezzi per le pulizie. L’orario di lavoro era finito. Tornò dabbasso, prese uno dei cartoni piegati che stavano in un angolo e lo montò. Poi sollevò l’animale prendendolo dalla coda e lo infilò nello scatolone, che caricò sulla bicicletta. Pedalò fino ai campi e lì lo depose, nell’ansa di un fosso. Inforcò nuovamente la bici e andò dritto verso casa, non aveva voglia di chiacchierare. Si fece una doccia canticchiando, ma aveva sempre davanti agli occhi le viscere aperte della creatura. Si mise una maglietta pulita, mangiò i bastoncini di pesce guardando il telegiornale, vide uno spezzone di un film e poi andò a letto a rimuginare sul ratto. Continuava a vederlo spento e immobile, sul pavimento freddo e polveroso del magazzino. Lo vedeva morire solo, riverso sul dorso, con le zampette tese. E non si dava pace. Non riusciva a prendere sonno.
Il lunedì mattina si presentò al lavoro con le tasche piene di pane. Preparò una piccola trappola, una cosa innocua che non facesse male all’animale, e attorno sparse le briciole: la mollica portava dritto dritto a una scatolina di cartone posta in un angolo buio del magazzino. A fine turno andò a controllare e ci trovò dentro non uno, ma due grossi topi. Gli allungò un po’ di pane e una fetta di mela che aveva sottratto dalla mensa. Chiuse bene la scatola e la caricò sulla bici. Durante il tragitto, a ogni sobbalzo, quelli squittivano e lui li tranquillizzava a parole: «Siamo quasi arrivati» ‒ diceva, «Manca poco».
A casa li liberò nel bagno, gli lasciò la scatola a terra rovesciata su un lato, mise una ciotola per l’acqua e una per il cibo. Poi si sedette sulla tazza a raccontargli la giornata. I ratti non la smettevano di correre avanti e indietro, sotto il mobiletto, dietro i tubi del bidet, nel piatto doccia. Erano curiosi e agitati. Uno dei due, il più socievole, si avvicinava senza paura. Finì col farsi la doccia chiacchierando con loro.
Quella sera si addormentò felice. Aveva salvato due animali da morte certa e l’indomani ne avrebbe salvati altri. Nessuno meritava di morire così, chiuso in un magazzino silenzioso senza luce del sole, nessuno. Era proprio vero, le cose finalmente andavano bene.