Le mie prigioni
Il soffitto di Ostbahnhof è coperto da vari livelli di griglie metalliche, fra i quali scorrono masse di fili elettrici colorati, tubature, lampade, neon sfarfallanti; le ombre proiettate sul cemento sono compenetrazioni geometriche sfumate dalla luminosità sparsa. L’estetica industriale delle pareti, dei suoi bassi tunnel di collegamento, dell’intero edificio squadrato e grigio, rende quasi impossibile considerarlo qualcosa di più di un non-luogo, anche se lo stanno addobbando per Natale. Un gruppo di operai polacchi spostano decorazioni squallide, ignorati dalle centinaia di persone che riempiono quotidianamente gli spazi della stazione, che ne percorrono i cunicoli, e non si rendono neanche conto di farlo. I pendolari non vedono le decorazioni natalizie come le imperfezioni del cemento: i pendenti dorati, le minuscole bolle d’aria all’interno delle colate, le sbavature nelle rifiniture delle pareti, i nastri luminosi, gli archi di foglie finte, i tragitti dei cavi ammucchiati sopra alle loro teste. L’abitudine rimuove dalle loro percezioni sia le macchie del pavimento consumato che gli odori sgradevoli divenuti parte integrante dell’esperienza. Quasi tutti evitano il contatto visivo con gli operai o con gli altri passeggeri, intrinsecamente convinti che sia il prossimo la causa del proprio disagio e non l’ambiente nel quale sono immersi. Non c’è da meravigliarsi quindi se la prima ad accorgersene è una ragazza, fermatasi improvvisamente in uno dei tunnel sotto ai binari, in mezzo al flusso di passeggeri, colta da un malessere che non coinvolge i sensi, o almeno non solo loro, un dolore difficile da descrivere che la fa accasciare a terra, in un angolo, con il volto fra le mani. Gli occhi nascosti fra le dita ossute, inanellate, non riescono a versare lacrime anche se sentono la necessità di farlo. I capelli scuri ricadono sul volto sconvolto, nascondendolo a una folla che non la degna di uno sguardo. Senza registrarla davvero, vede una goccia cadere fra le sue gambe, rannicchiate contro il petto. Quando, alla ricerca di un appiglio qualsiasi o forse dell’origine di quella goccia, rivolge il proprio sguardo verso l’alto, verso quel groviglio di reti metalliche e tubature che la separa dal soffitto, impiega qualche secondo a capire: appoggiato all’onnipresente grata di ferro, fra fasci di cavi e fili elettrici, fra tubature opache e neon spenti, c’è una figura antropomorfa dai contorni irregolari. Il corpo è ancora riconoscibile nonostante sia ormai tutt’uno coi vestiti consunti, in avanzato stato di decomposizione. Esiliato a poco più di due metri da terra, rinchiuso in quella grata inorganica e saldata in ogni sua terminazione, incastrato fra linee dritte e angoli retti, è lui l’errore, l’oggetto fuori posto, e l’unico modo che ha per uscire da quella situazione richiede più tempo di quanto la ragazza sia disposta ad aspettare. Il grido non riscuote nessuno dei pendolari.
Solo io guardo in alto e mi chiedo come possa essere finito lassù.