Le notti bianche
A volte non riesco a distinguere se ho gli occhi aperti o chiusi. Guardare il retro delle mie palpebre o il buio della stanza è lo stesso; il mio corpo giace supino nel letto, incapace di abbandonarsi al sonno. Solo con il tempo mi accorgo di stare fissando il soffitto non troppo distante, ne distinguo i contorni sfumati, identifico le tende scure, i quadri degli emisferi stellati appesi sopra di me. Le distrazioni non vengono dai pochi oggetti d’arredamento che adornano la mia visuale, ma da quelli incastrati fra le pieghe del mio cervello. Uno scrittore russo, non ricordo quale, attribuiva il sonno pesante e meraviglioso a quegli esseri fortunati che non soffrono di emorroidi, non sono tormentati dalle pulci e non sono afflitti da troppe sviluppate capacità intellettuali. Non mi illudo, questo non fa di me un genio solo per essere sveglio in piena notte. Abbasso lo sguardo, la scrivania è troppo lontana per distinguere i piccoli oggetti di cancelleria con i miei occhi miopi, la porta invece è un buco nero fin troppo preciso: un rettangolo più scuro della notte stessa. Mi rigiro nel letto, studio la geografia delle coperte come se non fosse formata dai nostri corpi. Colline e vallate suggerite da arti inermi, addolciti dallo spessore della trapunta, le pieghe morbide sfociano nelle tenebre poco oltre i confini della figura di lei, stretta nelle coperte. Ha sempre freddo, non le basta uno strato a difendersi dall’inverno berlinese. Vedo spuntare un piccolo orecchio dalla massa dei suoi lunghi capelli scuri, le punte si allargano su cuscino e lenzuolo fino a diventare tutt’uno con l’oscurità. Il mio sguardo scende lungo le spalle e la schiena, percorre il crinale formato dal suo corpo, torto in una posizione obliqua e difficile da decifrare. Ha le mani infilate sotto al cuscino, guarda dall’altra parte, verso l’armadio a muro, o forse dorme, almeno lei. Penso che il sonno, come la morte, sia una soglia indiscernibile, impossibile da attraversare nella coscienza di sé. Per questo forse più desidero avvicinarmi al sonno, più me ne allontano rievocando la mia volontà. Lascio perdere le mie elucubrazioni e torno a focalizzare la mia attenzione sulla schiena di lei, sulle sue curve nascoste, confondendole nella fantasia con l’orografia distante della notte, prima di chiedermi se non sia troppo immobile, anche per essere addormentata. Aspetto secondi, minuti, ore che il petto si muova, anche impercettibilmente; sono tentato di allungare un braccio e forse lo faccio, una mano esita sulla sua schiena, due dita a poche centimetri dal rigonfiamento della coperta. Mi avvicino io stesso, le scopro appena le spalle, senza toccarla. Puntello un gomito sul cuscino, mi chino su di lei e studio le scapole che spuntano dalle tenebre, percorro la spina dorsale fino a dove la selva di capelli non mi nasconde la visuale del collo nudo. Le fisso la nuca, l’origine dei suoi pensieri, e forse dei miei, torno al torace, le braccia alzate, nascoste sotto al cuscino. Vorrei nascondermi anch’io là sotto, fra le sue dita, perdermi nei suoi capelli e nei loro riflessi; ancora di più vorrei vedere alzarsi quel petto, percepire un respiro, un segno di vita. L’insonnia impedisce di dormire e ragionare al tempo stesso, confonde il sogno con la realtà, mi trascina fuori dalla quotidianità in una dimensione infinita composta di finitezze, pensieri in disuso, turbolenze e divagazioni, rimorsi, parole dimenticate. È un altro russo a venirmi in aiuto, senza consolarmi davvero, un russo che si è convinto che mai nulla esisterà, e che per questo ha smesso di arrabbiarsi con la gente, di considerarla, ha smesso completamente di pensare, tanto meno ai suoi problemi, perché nulla infine ha più importanza. Quando guardo di nuovo la schiena di lei, la noto alzarsi appena, lentissima, inesorabile. Le ricopro le spalle, mi stendo e mi tiro su la coperta, chiudo gli occhi come se servisse a qualcosa.