Le storie sono ancora tutte da scrivere
Per sbaglio arrivo all’appuntamento con 45 minuti di anticipo. No, non è per sbaglio, è per ansia, fa freddo e mi infilo in un bar per bere qualcosa. Ho dimenticato il libro a casa, così penso di sedermi, buttare giù due righe al volo e magari registrare il siparietto divertente cui ho assistito poco fa in metropolitana.
Ordino un caffè e una spremuta di pompelmo, mi siedo a un tavolino vuoto in posizione strategica, in un angolo, ho le spalle al muro e tutto il locale da studiare, poi prendo un libro malmesso dalla mensola per il bookcrossing. Leggo la quarta di copertina, sfoglio le pagine senza grande interesse, bevo il caffè e gli poso accanto il libro. Stanno cromaticamente bene posti così, la tazzina coi resti di caffè, il cucchiaino intonso, il segno leggero del rossetto sulla ceramica, le pagine ingiallite, ma la bellezza non basta. La bellezza non mi basta, io funziono a premi e punizioni. Mi sono ripromessa di scrivere e, dunque scriverò, e dovrò farlo altrimenti non berrò la spremuta di pompelmo. Se scriverai bene potrai premiarti, altrimenti ti alzerai e pagherai senza aver consumato tutto quello che avevi ordinato.
<<C’erano giorni in cui le parole correvano veloci, che fossero sputate sul foglio bianco o sulle note del freddo schermo poco importava, perché tanto venivano in fretta. Saltavano i preliminari, andavano dritte al punto e sapevano il fatto loro, conoscevano la strada da percorrere per non essere un incontro fortuito, ma per scriverci qualcosa di più, per tornare il giorno dopo ed avanzare pretese. Ed erano giorni buoni, dove una virgola non faceva primavera, perché ormai era già estate.
Ma venivano anche gli altri giorni, quelli non richiesti, disordinati e confusi, giorni di altalene emotive; quando, ingolfate di letture, le parole venivano rigurgitate in una massa informe e maleodorante. E subito dopo altri libri e altri versi sarebbero stati ingurgitati, si sarebbero rovesciati dentro, il titolo del volume, imbuto nella faringe, a scongiurare la fame. Una volta sazia, la nausea e la colpa pervadevano ogni cosa, dominando l’orizzonte come due fieri condottieri.
Non restava altro che aprire la diga, i due punti lasciavano cadere a precipizio l’elenco:
dei carboidrati,
dei libri scadenti,
dei denti guasti,
degli autori, orrori cangianti mangiati e rimessi ogni volta,
del lemma desueto,
dei capelli sporchi,
dell’eco familiare che non conduce a niente.
E correvano su su su, a svuotare lo stomaco, ad alleggerire il corpo per cercare sollievo.
Finché col cambiare della luna non avrebbero preso a galleggiare solo alcune piccole parole sterili, nelle ore di astenia e disamore. Alla confusione precedente si sostituiva la quiete; inizialmente accomodante, lasciava il tempo per annoiarsi, ma facendosi via via sempre più esigente, quella stesse quiete finiva col coprire di desolazione tutto, si trasformava infine in silenzioso deserto. Un deserto senza acqua e senza fiori. E a quel punto anche le parole dentro venivano meno. Sparivano, assorbite dal corpo scarno. Restavano solo due parole, nascoste nella pelle, nello stomaco.>>
Al tavolino accanto al mio si siedono un ragazzo e una signora attempata, insieme sono alquanto improbabili, come la situazione in sé. Sono le 10.45 del mattino e il ragazzo dovrebbe essere a scuola. Lui si toglie la giacca, guarda fissa la sciura e sbuffa, forse vorrebbe trasmettere astio, ma lo fa con tanta precisione da risultare finzione. E quella che vorrebbe essere una scortesia riporta ben altro: la familiarità del loro rapporto. Lei fa finta di niente mentre si sistema i capelli e fa un gesto al cameriere, dopo aver ordinato, raddrizza bene la schiena e mi si rivela:
“Come avrai capito ti ho portato qui non per premiarti dei tuoi ultimi risultati, ma per parlarti in un contesto differente. Ho saputo che hai intenzione di lasciare gli studi.”
La giovane tracotanza alza i tacchi, il ragazzo cade dal pero, si aspettava una lavata di capo sul rendimento, di certo non la verità al tavolino di un bar.
“Prof, cosa vuole che le dica?”
“Veramente vuoi lasciare la scuola a un anno dal diploma?”
“Ma chi glielo ha detto? No, non è vero nulla”
“Me l’ha detto Matteo. Ha detto che ci stai pensando da un po’ e siccome non riesce a farti cambiare idea me l’ha confidato”
“Guardi io in questo momento so solo che appena lo vedo gli metto le mani addosso”
“Ma finiscila. Lo sanno tutti che non faresti male a una mosca.” Il ragazzo ora è teso, pallido, sudato e abbassa la voce per non farsi sentire. Io lascio perdere la bozza e riprendo in mano il libro, fingendo di leggere mentre assisto alla scena con la coda dell’occhio.
“Te lo dico chiaramente: lasciare la scuola è la più grossa cazzata che tu possa fare”
“Prof non dica parolacce”
“Qui, e solo qui, posso dire quello che mi pare, e ti dico che è una cazzata. Ti ho portato fuori da scuola apposta per parlare da pari a pari. Non vai male a scuola perché non hai le possibilità, ma perché non ti applichi: sì quest’anno se non ti dai una regolata verrai bocciato. L’hanno scorso ti abbiamo graziato, ma quest’anno ti devi impegnare”
“Io non ce la faccio, a casa i miei parlano solo della scuola, dei voti, a me non me ne frega, io voglio lavorare per andarmene via di casa”
“E dove lo trovi un lavoro con la licenza media?”
“Beh farò il falegname”
“Per poter lavorare devi studiare, finisci le superiori e poi farai quello che ti pare, allora avrai anche 18 anni, se vorrai imbarcarti su una nave cargo e viaggiare per il mondo potrai farlo”
“Cos’è sta storia della nave?”
“Lascia perdere, adesso hai 17 anni, non puoi fare il cavolo che ti pare e ti manca solo un anno per terminare il percorso di studi”
“Se mi bocciate ci vorranno altri due anni”
“Correggi il tiro ora, impegnati, prendi almeno una sufficienza in qualche materia. Dove cazzo vuoi andare con la terza media? Me lo spieghi?”
“Prof a me piace venire a scuola, mi creda. Mi piacciono le lezioni e i compagni, ma soprattutto mi piace perché sto fuori di casa, poi ci torno e fa tutto schifo. E allora tanto vale cercare un lavoro e andarmene, io mollo la scuola perché voglio andarmene da lì”
“Ma che cosa ti hanno fatto i tuoi genitori? Sei fortunato: hai una casa, dei genitori che si preoccupano per il tuo futuro, sei intelligente e…”
“Non si preoccupano del mio futuro, vogliono solo un bel voto in pagella e non avere noie con voi”
Ho l’appuntamento tra 10 minuti, vorrei restare, ma devo andare, calcolo i cinque minuti per pagare, uscire, raggiungere lo studio medico ed arrivare giusta giusta in sala d’attesa con altri cinque minuti di disavanzo. Mi alzo di malavoglia, ma vorrei ringraziare questa professoressa coraggiosa che ti porta al bar e parla senza mezze misure, vorrei ringraziarla per la passione, la sincerità, per non fare spallucce se ogni tanto qualcuno abbandona gli studi. Ma non posso interromperli, non posso aggiungere nulla al loro discorso, posso però finire il succo di pompelmo perché alla fin fine qualcosa ho scritto, perché per l’ennesima volta ascoltare gli altri, in mezzo alla città che scorre, regala un’altra storia da raccontare. Siamo fatti di storie, prima durante e dopo, raccontiamo storie, ci raccontiamo storie e viviamo di storie. Questa storia è tutta inventata, tranne il discorso tra i due, che è avvenuto veramente qualche tempo fa in un bar in piazza Sant’Agostino, per l’appunto, accanto al centro medico. Non so se Matteo le abbia alla fine buscate, non so se il ragazzo abbia proseguito o meno negli studi, ma so che le storie sono ancora tutte da scrivere.