Leggendo Filippo
Ho letto il pezzo di Filippo nell’ultimo numero, il #39.
Qualche tempo fa avevo iniziato a buttare giù una bozza, a tempo perso, qualcosa che non fosse destinato al pubblico, volevo che fosse un chiarimento personale, a mio uso e consumo. Magari da leggere nelle giornate in cui scrivere è penoso, tanto che sembra aver perso ogni senso. Da leggere nelle giornate in cui vorrei tornare ad essere una lettrice vorace, priva di ogni formazione, che agogna solo al piacere della lettura.
Da piccola leggevo per salvarmi.
Nelle evasioni cartacee sfuggivo alla noia e vivevo di mirabolanti avventure, i libri mi prendevano per mano e mi portavano altrove. Mi pareva di viaggiare su ali di carta, delicate, fragili, ma la loro leggerezza mi permetteva di andare lontano.
Nel crescere mi resi via via conto che dal quotidiano inferno personale non c’era via di fuga, la realtà era una proiezione sul muro bianco di casa, la realtà non si poteva cambiare e andava in onda tutti i giorni con le stesse identiche modalità. Leggere non mi avrebbe salvata.
Scrivere, allora, forse.
Riscrivere intere porzioni di realtà condite di fantasia, potevo inventare storie o ascoltare quelle altrui e farle mie, ma non menzogne, no, quelle no, potevo farne storie nuove. Erano di altri, ma nella tastiera, sotto le dita, lentamente si aprivano, cedevano, gli cambiava il volto e si facevano mie. Erano storie di evasione, leggermente arrossate sulle gote, e con me godevano di una nuova vita. Tutto ciò che mi circondava pareva raccontare una storia propria, tutto sembrava essere lì in attesa di essere messo per iscritto, anche se spesso mi pareva di non essere all’altezza, perché non avevo sufficienti parole nel mio vocabolario, perché confondevo termini, perché ero troppo giovane e inesperta. Scrivevo favole e racconti per una persona in particolare, perché volevo salvarla. E provai a farlo nell’unico modo che conoscevo. Non bastò, non fu mai abbastanza. Non è mai stato sufficiente, anche se mi ero ingenuamente ripromessa il contrario.
Leggere e scrivere non può cambiare la realtà delle cose, ma cambia da dentro le persone. E questo forse l’ho imparato troppo tardi. Ad ogni modo non credo che la letteratura sia un’arma, mi pare più un modo di stare al mondo, di guardare il quotidiano e l’intimo umano con occhi sempre nuovi, diversi. È la molteplicità di visioni che mi incuriosisce e mi tiene sveglia a leggere o a scrivere.
Ho letto quel pezzo di Filippo, rubato a una corrispondenza privata, e ho avuto l’impressione di conoscerlo bene Filippo.
Invece no.
Non lo conosco affatto e non sono propensa a credere che la letteratura unisca solitudini lontane. Certo è un’immagine d’effetto, ma per me non corrisponde al vero. Perché il punto è che le solitudini nella letteratura rimangono tali: il lettore legge e elabora in solitudine, così come fa l’autore. L’autore vorrebbe trasmettere il concetto X, ma non sempre ci riesce e/o non tutti possono coglierlo. Però il pezzo suona bene, a molti piace, alcuni capiscono e portano il ragionamento oltre, lo fanno loro, ad altri basta che l’estetica delle parole funzioni. Ognuno va per la sua strada. Il ponte delle solitudini è illusorio perché basato su parole fugaci, astute, ambivalenti e soprattutto infedeli. Anche se si parlasse la stessa lingua la scrittura non sarebbe mai universalmente chiara, non potrebbe mai dare un risultato preciso, matematico, sarebbe sempre soggetta a troppe varianti. Le leggi scritte vengono sì applicate, ma sulla base dell’interpretazione creativa del giudice; figurarsi se si parla di narrativa, di letteratura.
Per questo mi piace pensare che il mestiere del lettore e dello scrittore sia estremamente solitario, il ponte tibetano, traballante sul precipizio, sono le parole, ma il resto: la partenza, il viaggio e la destinazione sono in balia del soggetto scrivente prima e del leggente poi – praticamente giganteschi maelström.
Un libro dà vita a milioni di solitudini, sono milioni di letture differenti, milioni di parole che vengono interpretate; è molto raro che le parole non tradiscano l’autore. Ed è così che scrivere e leggere cambiano internamente il modo di vivere l’altro, perché ti permettono di vederlo con gli occhi di un terzo. A volte mi consolo pensando che di riflesso possano anche migliorare un poco la vita. Un poco.
Poi mi soffermo su tutte le storie che seguiamo quotidianamente (il podcast, il romanzo, la serie su netflix, l’amico al telefono coi problemi di cuore e via dicendo) e capisco che in un modo o nell’altro siamo tutti composti di storie e ci fermiamo ad ascoltarle. Le seguiamo. Le ricerchiamo. C’è pure chi le inventa di mestiere. Da sempre viviamo di storie. Potremmo dire che è la unica, e grossa, peculiarità che ci distingue dai primati. Gli animali hanno un loro linguaggio, usano tra loro una comunicazione efficace, finalizzata a scopi ben precisi, ma non hanno una narrativa. Gli uomini invece sì. E questa narrazione continua ci caratterizza da sempre, da prima di Omero. Le storie ci hanno tenuto in vita finora, forse migliorano davvero la vita, e forse non poco.