Qual è il rapporto tra autore e lettore? Bella domanda. Il quesito sollevato da Urifidia nell'ultimo numero tocca una questione abnorme e può essere inserita nel ben più vasto problema della comunicabilità, in quell'incontro/scontro tra l'io e il tu, tra realtà esterna e realtà interna, che tanto ci terrorizza e tanto ci ammalia. Quello che sento, il brusio nelle mie viscere, questo dolore, questa paura, questa gioia, questa noia è il brusio delle tue viscere, il tuo dolore, la tua paura, la tua gioia, eccetera? Ovvero, l'esperienza universale coincide con quella particolare, è contenuta in essa o è una somma di esperienze diverse? Domande a cui certo non so rispondere e non voglio nemmeno prendermi la briga di farlo. Eppure la questione mi tocca, accidenti. Mi comprendi davvero? Capisci quello che sto dicendo? O il filtro della contingenza altererà sempre e comunque quello che voglio comunicare? Ma poi, quello che sento lo so esprimere davvero? Non vi è infine una distorsione già a monte del processo, prima che arrivi all'altro, nella razionalizzazione delle mie sensazioni, delle mie emozioni? Insomma, quanto di vero c'è nelle parole? Nel Cratilo Platone «esamina la teoria eraclitea secondo cui i nomi delle cose hanno valore conoscitivo: l'etimologia è dunque una ricerca della verità attraverso l'esame del nome»[1]. Sebbene alla fine Platone non si trovi d'accordo con tale ipotesi e propenda invece per una ragione storica e convenzionale dei nomi, il giudizio per cui esista un'identità ontologica tra significato e significante finì per diventare generalmente accettato nella nostra tradizione culturale, almeno fino al secolo scorso, quando la linguistica tornò a questionare i fondamenti del linguaggio. D'altronde tutt'ora è buona pratica nella ricerca accademica partire proprio dalle parole, dalla loro etimologia, per trovarvi solide basi di avvio. Eppure l'alfabeto, come qualsiasi altro simbolo, pone un distacco tra la cosa in sé e la cosa detta, ovvero presenta una consistente parte di natura convenzionale, di arbitrariamente scelto e in seguito generalmente accettato. Il sostantivo “cane” descrive davvero l'animale cane, partecipa alla sua realtà più intima, al suo essere? E perché il metro misura esattamente 100 centimetri? Vi sono alla base processi storici più o meno ben definiti e spiegazioni razionali, ma ciò non toglie il processo razionalizzante che si cela a monte, di semplificazione e incasellamento di fenomeni estremamente più complessi e informi. Per questo esistono le endiadi, le metafore, le sinestesie, le metonimie: per esprimere l'inesprimibile. O almeno per avvicinarsi il più possibile. Per questo esiste la poesia, si potrebbe arrivare a dire. Ma non voglio avventurami in affermazioni perentorie, di cui non mi fido mai abbastanza per crederci veramente. Non voglio fare filosofia, non è il mio mestiere e non ne ho le capacità, né le conoscenze. Questo però è uno dei motivi per cui io scrivo, per mettere in ordine l'entropia del mio esistere, per tentare di circoscrivere l'inafferrabilità magmatica del mio essere, oltre all'anagrafe, alle coordinate spazio-temporali e alla mia data di nascita. Per me scrivere è un'abluzione catartica, una seduta di psicoanalisi estremamente intima. Io sono, sto qui, ma cosa cosa significa ciò? Scrivere è un atto egoistico, ho detto nella mail pubblicata qualche numero fa citando Elena Ferrante, o egotico almeno, ma è anche un atto spirituale, se non addirittura religioso, aggiungo ora. Molti arricceranno il naso davanti a parole tanto volgari. Ma la mia spiritualità è la stessa della merda annerita sul cemento, la mia religiosità quella di una bestemmia, la santità di un iconoclasta. Non esiste nulla di più pernicioso e deleterio per lo scrivere (e il leggere) stesso che ammantarlo di qualche solenne sacralità o nobiltà celeste. Mi ricorda un po' il ritornello del “a che cosa servono il greco e il latino?” che ogni giorno rimbombava nelle mie orecchie durante i giorni del liceo classico. Apre la mente, nobilita l'animo, si rispondeva. Poi un giorno, all'università, il mio professore di bibliologia affermò con inoppugnabile rigore logico che se ciò fosse stato vero allora non si spiegherebbe come mai tra i suoi esimi colleghi si trovino alcune delle più grandi teste di cazzo mai incontrate. Come detto, irrefutabile. A che cosa serve scrivere, dunque? A nulla probabilmente, ed è proprio in questa inutilità che si cela tutta la sua potenza, fuori dalla logica produttività, dal mantra della crescita a tutti i costi e dalle regole del mercato. Scrivere è spesso un atto meschino, noioso, vigliacco. Ancora più spesso è semplicemente un atto, come fare la spesa. Sì, è un atto, e in quanto tale è rituale, detta delle coordinate, dei punti di riferimento a cui aggrapparci nel marasma dell'esistenza. Nel marasma ti ci devi gettare, mi dirà qualcuno, ma quella è un'altra storia. Comprare il tabacco, fare la lavatrice, bersi una birra, tutti i piccoli rituali a cui ci aggrappiamo per non annegare, per non farci soverchiare dal nulla che ci circonda, perché sì, Dio è morto, ma il nodo non è sciolto. Nell'età della tecnica e del raziocinio calcolatore non riusciamo fare a meno di portare avanti questo pensiero magico, che sottende ogni nostro gesto, perché alla fine non siamo capaci di non dare un significato all'insignificabile. La verità è che è negli sconfinati spazi aperti della fantasia che troviamo la nostra ultima libertà, in cui poter far convivere felicemente tutte le contraddizioni e i paradossi che ci caratterizzano, in cui fuggire l'implacabile ghigliottina del razionale. Checché se ne dica, ognuno vive una propria spiritualità, si pone delle domande, combatte dei dubbi, s'intristisce e si rallegra. In maniera variegata, differente, certo, eppure succede e tanto basta. Succede che il mondo interiore si riversa in quello esteriore e viceversa, perché le dicotomie, le opposizioni manichee sono semplificazioni, e infine accade quel piccolo miracolo che è la reazione empatica. Il ponte delle solitudini è illusorio dice Urfidia, e forse ha ragione, ma mi basta un'illusione condivisa, l'illusione del comprendersi, il tentare di definirci, di definire questa strana realtà che tutto include e sorregge e fallire miseramente, mi basta il tentativo, solo quello, per andare avanti, nonostante tutto. In quello stesso incontro mancato viene meno il muro che divide me da te, l'io dall'altro. Che rumore fa un albero che cade in un bosco se non c'è nessuno ad ascoltarlo?, dice una boutade fin troppo usata. Che cos'è l'io senza un tu a cui contrapporsi e che cos'è un tu senza un io con cui confrontarsi? È la relazione stessa tra i due a dare loro senso, tanto che si sarebbe tentati di affermare che le cose in sé non esistono, ma solo le relazioni tra di esse. Sono quelle, le relazioni, a contare in ultima istanza, a dare significato al tutto. E per fortuna se quello che leggo, quello che faccio mio, che elaboro e che scopro non è lo stesso che intendeva comunicarmi l'autore, che intendeva farmi scoprire elaborare. Un'altra pietra sarà stata posta, un nuovo sentiero tracciato e l'arricchimento sarà stato reciproco. Avevo un'idea, tu ne avevi una, e ora ne abbiamo entrambi due, o ne abbiamo una terza totalmente nuova, che fino a un attimo prima non esisteva, o ne abbiamo cento, mille, un milione. E ogni travisamento, ogni cattiva interpretazione, ogni alterazione o fraintendimento sarà un dono condiviso, un passo più in là. Che cosa significa poi avanzare nell'infinito senza direzione è un'altra questione. E sì, magari mi sarò innamorato di una mia proiezione, di una idealizzazione e infine incontrerò l'altro nel cesso di una stazione e si rivelerà un immenso idiota, ma nulla cancellerà l'odore dell'amplesso consumato, del penetrarsi vicendevole di una mente nell'altra, e magari in un'altra e in un'altra ancora, e dell'orgasmo susseguitosi, del prodotto di quell'amore. Perché scrivo? Perché leggo? Non lo so ma continuo a farlo e questo mi basta.
[1]A. Vàrvaro, “Storia, problemi e metodi della linguistica romanza”, Napoli, Liguori Editore, 1980 (1. ed. 1968)