L'estate dei fantasmi
Dov’eravamo rimasti? Ah sì, alle mie non-vacanze in Italia. Ti ho quasi invidiato, ma quest’anno anche la Berliner Sommer... Comunque volevo raccontarti un episodio che mi è capitato pochi giorni prima di ripartire. Ero andato a trovare questo mio amico che sta in campagna, sulle colline fuori... presente dove? Una vecchia casa colonica con un suo fascino, due capannoni, nove ettari di bosco. Non so se invidiarglielo o no, il podere, ma se non altro sta fresco d’estate. Ha anche una piscina gonfiabile come negli anni ’80 e un laghetto per l’irrigazione, perso da qualche parte nel bosco, non che ci si possa nuotare. A un certo punto, annoiato dai soliti discorsi, dai soliti confronti Italia-Germania, sono andato alla ricerca di questo fantomatico laghetto. Mi sono allontanato senza dire niente, non credo si siano neanche accorti della mia scomparsa, e ho seguito i sentieri battuti dal trattore. Seguivo le forme dei cingoli sull’argilla secca e polverosa, la vitalba e i rovi sembravano mangiarsi la strada a ogni passo. Mi ci sono impigliato un paio di volte, sono come il filo spinato sai?, non ti mollano più. Ho ancora uno sfregio nel polpaccio. Comunque cammino, salgo un poco, raccolgo due more. A un certo punto mi sono affacciato in mezzo alle siepi sulla vallata e sul paese più in basso: le colline di fronte sembravano un quadro, con le loro casette sparse, le silhouette degli alberi sul crinale, l’intero versante colorate di giallo dai raggi pesanti del sole. Cercavo di stare all’ombra, ma avevo già la maglietta fradicia, il sudore mi inzuppava le sopracciglia e mi colava lungo il naso. Con quel naso, per forza, dirai tu... Vabbè, ho continuato a camminare per qualche minuto. Nove ettari non sono così grandi, ma vedi quel podere è tutto steso per la collina, quasi come se fosse una striscia a mezz’altezza, vicino al crinale, non so come mai abbiano diviso le proprietà in quel modo. Chissà chi e quando. Fatto sta che alla fine ho trovato uno spiazzo e mi è sembrato di scorgere un cartello spuntare fra l’edera e i rovi. Non capivo come facesse la vegetazione a essere così rigogliosa su un terreno così arido: per terra le crepe nell’argilla erano larghe quanto il mio piede, dovevo stare attento per evitare di prendermi una storta là da solo in mezzo al bosco.
Mi sono avvicinato al cartello per leggere, e ho scoperto una recinzione di filo di ferro arrugginito, pali di cemento forato, un lieve declivio e un laghetto più largo di quanto potessi immaginare... Faccio fatica a dirti delle misure, così a occhio. Nella memoria poi sembra ancora più grande di quanto probabilmente non fosse: un piccolo mare limaccioso, al cui centro galleggiava la figura zuppa ma inconfondibile di un piccolo essere umano, un bambino forse. Le rane gracidavano senza sosta, il sole picchiava sulla mia nuca quasi calva ormai, e non sapevo cosa fare. Superare le rive di fango viscido, buttarmi in quell’acqua torbida, senza fondo, considerato quanto poco io sappia nuotare, buttarmi in acqua era l’unico gesto che riuscivo a visualizzare, eppure non mi decidevo... La paura di fare la stessa fine di quel corpo abbandonato là in mezzo mi paralizzava. Buttarmi nell’acqua. Chissà se nell’aia qualcuno si era accorto della mia assenza o stavano ancora parlando degli stipendi tedeschi o della pizza italiana. Buttarmi subito. Chissà poi se quel corpo al centro del lago era ancora vivo. Buttarmi. Chissà se ne sarei venuto fuori per raccontarlo. Buttarmi. Capisci cosa intendo?
Lo guardo da sopra la mia Radler, non so di cosa stia parlando. Alzo gli occhi. Le temperature nordiche hanno atrofizzato i miei muscoli e la mia empatia. Socchiudo gli occhi alla ricerca dell’ultimo residuo di calore della giornata e studio le nuvole farsi e disfarsi nel cielo di Berlino.