Decisi che avrei ammazzato qualcuno mentre riflettevo sulla mia vita: trentacinquenne solo e disoccupato, con in tasca un diploma di liceo classico, una laurea in legge non portata a termine e poco altro. Futuro, caro lettore, per me è solo una parola dal latino. Non tocco donna da anni. Non ne ho mai toccata una. Se vivo con i miei, come passo il tempo, se mio padre mi vuole bene o meno, sta a te a deciderlo. Sono particolari futili per la storia che sto per raccontare. Pensai che uccidere un uomo avrebbe reso la mia vita speciale o quantomeno diversa da quelli degli altri, degna di essere ricordata, e se non nel bene almeno nel male.
Ma mi ero ripromesso che il fatto non sarebbe accaduto in modo casuale. Da quel momento in poi per mesi il mio tempo trovò senso nella ricerca meticolosa dell'uomo esatto da uccidere. Ora ti chiederai, qual è l'uomo esatto da uccidere? Me lo chiedevo sempre anche io ogni volta che in giro, mano dentro la tasca ad impugnare la pistola che portavo sempre con me, osservavo le persone passarmi davanti. E pensavo: perché non la vecchia con la sciarpa rossa? Perché non il padre di famiglia? E quel bambino? So cosa starai pensando, lettore, ma un bambino sì, perché no?
Onestamente lettore, non avevo idea di chi potesse essere l'uomo esatto. Ma ero sicuro che una volta incontrato lo avrei riconosciuto, e ucciso. Ero sicuro, sbagliavo ad esserlo.
Un pomeriggio passeggiavo con la mente inquieta per il Bosco di tigli vicino le colline fuori città. Nonostante quella strana sensazione mi sentivo elettrizzato, attraversato da scosse adrenaliniche, come ogni giorno da quando presi l'infausta decisione.
Vidi un ragazzo di spalle. Era immobile a fissare chissà cosa. Un brivido mi percosse tutto il corpo dagli alluci ai capelli, e capì di trovarmi di fronte all'uomo esatto. Mi avvicinai piano fino a quasi poterlo toccare, lui ancora non si girava. Estrai la pistola e, lettore, ci tengo a specificarlo questo: lo feci impeccabilmente, dopo tutte le prove che avevo fatto nella mia camera. Gliela puntai contro.
“In ginocchio” ordinai con una voce che mi stupì, nemmeno sembrava la mia. Il ragazzo sussultò, poi come se avesse tutto il tempo del mondo si girò verso di me. Lo sguardo era perso, non sembrava affatto sorpreso e ciò mi deluse non poco.
“Sei sordo? In ginocchio!” si inginocchiò. Abbassai la pistola prendendo la giusta mira, avrei sparato al centro degli occhi. Poi però lui fece qualcosa che mi paralizzò: appoggiò con forza la fronte sulla volata della pistola.
“Fallo, ti prego” mi disse e scoppiò a piangere.
Ero sconcertato. Esitai. Mille domande mi vennero in testa. Era davvero così che volevo andasse? A quel punto mi accorsi di una cosa di cui, stupido io, non mi ero accorto prima: un cappio pendeva dal ramo dell'albero di fronte a loro.
“Fallo, ti prego” ripeté.
Dopo mesi di caccia, di fremiti, di riflessioni e adrenalina, avevo la mia preda in ginocchio che mi implorava di uccidermi. E in quel momento una piccola voce nella testa mi impediva di premere il dannato grilletto. “Così non è giusto, è troppo facile” pensavo, e nel frattempo realizzavo che l'unica cosa che desideravo davvero da mesi era guardare dentro degli occhi pieni di terrore che chiedevano pietà. Ma nulla di ciò stava accadendo e cominciai a sentire la brutta sensazione di aver sbagliato tutto, uomo, posto, ora, momento, e forse era troppo tardi. Ci credi che io, tra tutte le persone, tutti i posti, tutte le ore e i momenti, avrei potuto scegliere proprio l'unico ragazzo che desiderava essere ammazzato?
E cosa avrei dovuto fare io? Se lo avessi accontentato magari sarebbe stato un bene per entrambi! Io avrei ucciso, lui sarebbe morto. E magari in questo modo sarei scampato a qualsiasi eventuale senso di colpa futuro, del resto sono comunque un uomo buono. Ma sarei stato davvero soddisfatto? Era in questo modo che volevo uccidere? No, non lo era per niente. Volevo che la persona a cui stavo mirando mi pregasse di risparmiarlo, come fossi un dio. E sì certo, quel giovane mi stava pregando, ma io non avevo intenzione di concedere favori a nessuno e né tantomeno alla mia vittima.
Rimettere la pistola in tasca e andare via? Escluso. Mi sarei sentito per l'ennesima volta un fallito.
Ma questo implicava che avrei dovuto ucciderlo per togliermi il pensiero e poi, per soddisfarmi veramente, cercare un'altra vittima. Però lo ripeto, sono un uomo buono. Non volevo diventare un omicida seriale, sarebbe stato troppo impegnativo per me.
Per temporeggiare parlai al ragazzo:
“Perché volevi impiccarti?”
“Se non mi spari ora, mi impiccherò dopo”
Pensai che forse per decidere sul da fare avrei dovuto sapere qualcosa in più di lui, non mi sembrava affatto una cattiva idea.
“Qual è il tuo nome?”
“Jonathan”
“Jonathan. Cosa fai nella vita?”
“Sparami”
Cominciai a spazientirmi. Non volevo fargli da psicologo ma lo vedevo come l'unico modo per decidere.
“Rispondi. Rispondi alle mie domande e poi ti sparo. Cosa fai nella vita?”
Jonathan fece una pausa “Lavoro al negozio di mio padre e... studio”
“Cosa studi?”
“Studio al liceo. Ti prego sparami ora o lasciami in pace”
Era appena un ragazzino. Non poteva avere più di sedici anni.
“Ma perché vuoi morire?”
“E tu perché vuoi uccidermi?”
Sbroccai.
“Al diavolo! Se voglio uccidere un uomo è perché spero che veder saltare le cervella fuori da una testa come la tua mi farà sentire meglio. Io non sono una persona cattiva, non ho mai, mai pensato di sfiorare nessuno per tutta la mia vita, ma ora devo farlo se voglio migliorare, se voglio dormire sereno, se voglio non sentire più quei sensi di colpa soffocanti ogni ora del giorno che mi mettono a tacere tutti, tutti i pensieri se non uno, uno solo, e sai quale? SEI UNA NULLITÀ. Non voglio più sentirmi una nullità rispetto agli altri.”
Che imbarazzo, lettore. Ma almeno qualcosa era cambiato.
Jonathan mi guardava allibito, gli occhi non erano più persi ma pieni di stupore e comprensione. Mi disse:
“Allora dato che la pensi come me, aiutami! Ho il diritto di morire quando voglio e ho scelto oggi e se tu hai scelto oggi per uccidere, aiutiamoci”
“Non era così che doveva andare. Pensi io provi soddisfazione nel vederti pregarmi per ucciderti?”
“E allora lasciami stare!” gridò “Fammi ammazzare da solo!”
“Non posso”. Cercavo di calmarmi. Non mi piaceva l'idea di non essermi controllato, come penso sia comprensibile, e di essermi aperto così tanto a quel ragazzo. “Non posso… sei libero di non credermi ma mi sentirei... in colpa a lasciare che ti ammazzi”
Jonathan a quel punto era davvero perplesso, e mi resi conto che le mie parole suonavano davvero paradossali.
“Non sono pazzo!” urlai “Non sono nemmeno cattivo! Lo vuoi capire? Non ho mai voluto fare del male a nessuno, te l'ho detto!, e il fatto che volessi uccidere qualcuno non ha a che fare con un odio universale nè con qualcosa di simile. E' per me, per me e basta, per dimostrare a me stesso che..” mi morsi il labbro, me lo ricordo ancora perché mi ero fatto male. Dovevo smetterla di aprirmi così tanto a quel ragazzo. E poi nemmeno sapevo come finire la frase. Uccidendo dovevo dimostrare a me stesso cosa? Che ero speciale? Che ero in grado di fare qualsiasi cosa volessi?
Jonathan non parlava. Ma credo perché fosse tranquillo: se gli avessi sparato gli avrei risparmiato sicuramente l'angoscia del cappio. La morte per soffocamento, il collo spezzato per il proprio peso e via dicendo. Se avessi invece deciso di risparmiarlo, lui sarebbe stato libero di ammazzarsi comunque, sopportando l'agonia dell'impiccagione. Sì, lettore, lo so a cosa stai pensando e hai ragione: a differenza mia, quel ragazzo era libero e deciso. Lo capì perché mi stava guardando con pena.
Alla vista di quello sguardo compassionevole gli puntai deciso la pistola contro. Poi però la rimisi giù, con la disperazione negli occhi.
“Sparami”
Realizzai allora una cosa e qui, lettore, c'è lo snodo definitivo.
Decidere di negargli la pallottola significava negargli la morte. E negare la morte è, insieme a dare la vita per poi riprendersela, una cosa da dio.
Animato da questo pensiero consolatorio mi rimisi la pistola in tasca e decisi di andarmene via con la giusta consapevolezza. Jonathan mi guardò negli occhi, voleva sapere un'ultima cosa:
“Ucciderai qualcun altro?”
Non sapevo come rispondere. In quel momento volevo solo godermi l'aver deciso sulla vita e sulla morte di qualcuno e stupidamente dissi:
“Per ora risparmio te. Va' a casa. Hai capito? Vai a casa, sei salvo. Oggi sei stato graziato.”
Jonathan mi guardò con occhi nuovi e mi giurò che se ne sarebbe tornato dalla famiglia.
Tornai a casa sentendomi sollevato. Avevo ancora la pistola e avrei potuto uccidere chiunque altro sulla strada di ritorno. Guardavo le persone in giro e mi sentivo di starle benedicendo tutte dall'alto della mia utilitaria. Ero io, in quel momento, a decidere quale vita valesse e quale no. Magari ho graziato anche te, lettore.
La mattina dopo sulla prima pagina de giornale dominava il titolo
“Ragazzo trovato impiccato nel Bosco dei tigli”
il senso di fallimento fu tale che tutt'ora, due anni dopo, non riesco a non sentire altro. La pistola l'ho seppellita insieme alla mia speranza di potermi sentire, anche solo per un'ultima volta, sereno. Sono stanco e questa è la mia lettera d'addio che voglio sia pubblicata in tutte le testate possibili. Devono tutti sapere che persona ero e cosa ho permesso.
Scusatemi tutti.