Libellula vietnamita
Chissà com’è che mi vedi, quando mi guardi e io fingo di non accorgermene.
Chissà cos’è che ti spinge a volgere lo sguardo nella mia direzione piuttosto che in un’altra. Vorrei sapere se c’è un gesto, un modo di fare, un tic che neppure io conosco.
È l’odore della mia pelle? La matita verde che tiene i miei capelli raccolti in maniera disordinata? Il rumore che faccio con la bocca quando rido?
Non ti vergognare, se non ti va di parlarne puoi sempre scrivermelo su un pezzo di carta, sul fazzoletto che hai usato per pulirti gli angoli della bocca sporchi di caffè.
Mi salta all’occhio, diligentemente piegato su quel tavolo. Non riesco a vedere nient’altro che la leggerezza delle tue mani mentre lo muovi sul tuo viso, in maniera esile, fina, riguardosa, fino poi a stirarlo lentamente e a riporlo sotto il piattino, salvaguardandolo dal vento.
Quello che di te mi incatena è la tua cura, ma pure i respiri profondissimi che fai mentre sottolinei le pagine di un libro, quando tutto intorno tace ma il tuo respiro no, quello lo conservi solo per me, quello fa più rumore del resto.
Addirittura, a volte, chiudo gli occhi sperando di ricordarne il ritmo preciso, così da conservarlo per i giorni in cui non ci sei e mi sento tragicamente e disperatamente il contrario di molteplice.
Talvolta, mi succede pure di fare un gioco molto stupido: mentre cammino dentro casa serro gli occhi e so esattamente dove mi trovo. Con te mi succede lo stesso.
Mi piaci perché segui il flusso della vita con indifferenza serafica, perché non ti ho mai visto arrabbiato, annoiato, triste, ammutolito. Mi piace che arrivi sempre alla stessa ora, puntuale, dappertutto. Mi piace che tra le tue mire espansionistiche ci sia la conquista all’evanescenza, che sei inaspettato e a lento rilascio, che pure se non sono d’accordo con te va bene lo stesso. Mi piace che usi il congiuntivo e mi tieni aperte tutte le porte facendomi spazio, che il lunedì mi saluti sempre con la stessa frase come fosse un mantra pronto a ricordarmi chi siamo e cosa vorremmo diventare. Mi piace che mi chiedi sempre se sto bene, se sono stanca, se i ragazzi a scuola mi hanno fatta arrabbiare o diventare cattiva, con purezza e sincerità, quelle stesse doti che si leggono a grandi lettere in fondo alla sclera degli occhi tuoi.
Mi piace che quando ti immagino diventi all’improvviso un libro con la copertina flessibile, il vagone di un treno che odora di mandarini sdraiati sui termosifoni, un mucchietto di foglie gialle, gli interminabili silenzi dei sabati mattina o una strada che taglia un campo, insomma qualcosa in cui vorrei tanto potermi nascondere e rifugiare quando non mi piace niente.
Ho capito che eri la persona giusta quando mi hai chiesto che dimensione avesse il dolore; quando con le mani ti ho fatto vedere quant’è grande il mio e tu hai capito, senza bisogno di mostrare cicatrici o punti di sutura.
Intanto, mentre prendo coraggio per stamparti un bacio lì dove generi le parole, raccontami qualcosa che non so, parlami di quello che ti rende felice.
Non fare quel sorriso ingenuo, fai tornare giù quegli occhi cangianti, ci dev’essere pur qualcosa.
Per mia parte, spero sempre di volare via nell’attimo esatto in cui apro l’ombrello, annuso regolarmente l'astuccio delle matite colorate, mi piace quando i pedoni ringraziano con cenni scomposti della mano; mi lascio ancora stupire dalle poesie della Szymborska, dalle foto di Luigi Ghirri, dai musei vuoti, dalla tenacia propria solo dei bambini quando fanno entrare una parola ai margini dei fogli pur di non andare a capo, insegnandole come esistere dentro uno scarabocchio; ogni estate penso che vorrei essere un postino per recapitare cartoline con strani francobolli e leggere quanto la gente sia felice altrove.
Questa sera quando mi sei passato accanto hai generato aurore boreali, panorami sconfinati, balconi da cui lanciare appuntamenti, un buio che non è pece ma mantello elegante, delle spade che non sono di Damocle ma dei guerrieri della luce di Coelho, legami taciti, accordi taciti, intenzioni tacite, voluttà esplicite.
Ma sono sicura che neppure te ne sei reso conto e ci rimango male.
Per non pensarci troppo, conto tutte le persone che da me sono partite per andare altrove, fosse anche nella seduta di fronte alla mia, allontanandosi solo di qualche centimetro.
Conto pure le volte in cui sono stata io a sparire, promettendo un viaggio breve al di là dei tremori, dai quali però non sono mai più tornata.
Mi riviene alla mente quella volta in cui, una persona che ho molto amato, mi disse con convinzione: «Sei come una libellula vietnamita, se sei felice rimani e se sei triste te ne vai» appoggiata allo stipite della porta di camera sua, con la testa reclinata e lo sguardo assente. Ricordo che guardai fugacemente e in maniera meccanica fuori dalla finestra, e nel cortile del suo palazzo c’era questo albero altissimo, completamente spoglio ma con un nido abitato sulla cima.
Pensai subito, di getto, che all’amore non servono fronzoli, ma quello che all’amore basta.
E l’ho capito solo ora, solo oggi, dov’è che quel pensiero vago e nebbioso volesse condurmi: davanti ad una verità dolce, a chi mi si siede accanto senza pretendere risposte per poi disinnescarmi dolcemente, sopra una nuvola dalla quale nessuno vuole buttarmi giù.
Allora stamani, dopo una lunghissima notte insonne, con le gambe penzoloni lungo questo muro altissimo che mi protegge, con gli occhi fissi sulle cupole e i tetti della città, mentre l’aria mi sposta i capelli di fronte al viso e il cielo si fa chiaro, saluto tutte le emicranie, gli attacchi di panico, i dolori di stomaco che mi hanno abbrancata e sgualcita lungo questi anni. Dentro questo freddo che spacca le dita, sotto questo cielo aerino, al centro di quest’amore, comprendo e faccio pace con la mia fretta, con il mio flusso non arginabile, con il mio continuo soppesare, bilanciare, misurare, centellinare.
Scusatemi tutti per questi anni di disordine, pensieri aggrovigliati, frasi a metà. Scusate per gli sguardi persi nel vuoto, per gli scazzi, i discorsi sulle insicurezze e per tutto quello che sono riuscita a raggiungere solamente piangendo. Nonostante i miei silenzi e la voglia costante di sparire, in realtà lotto per la mia completa sopravvivenza. Ho deciso che non voglio più morire a pezzettini ma che voglio esistere come persona tutta intera.
E come vorrei avere gli strumenti necessari per far capire alle persone che amo quanto le amo.