L'oleandro
Mi sveglio alle cinque del mattino. Fuori gli uccellini cinguettano. Sono molto affezionata al loro canto, che detta la fine della notte. Nel buio mi affido ai loro gorgheggi, che si sentono distintamente nella città deserta e paiono così vicini.
Stamattina sono andata al lavoro in bicicletta, “Non prendi l’auto?”, “No, c’è il sole, voglio pedalare”, “E le borse?”, “Oggi non serviranno, non morirà nessuno”. Avevo su una t-shirt bianca con lo scheletro di una mano che fa il dito medio, una fascia fucsia legata a fiocco in testa, gli orecchini grandi e gli occhiali scuri.
Sono passata davanti al prestinaio e non c’era nessuno in coda. Così, ho pensato di fermarmi per Gabri, che il sabato mattina solitamente fa la spesa lì. Ho poggiato la bici al muro: “Ga’, hai preso il pane? Il panettiere è vuoto, vado a prenderti i panini morbidi!” – speravo di trovare anche i suoi amati tortelli fritti ripieni. “Lega la bici e entra ché ti ho già preso il pane caldo e il bombolone”. Allora, ci siamo fatti un caffè.
“Ho deciso di fare una tariffa standard per i decessi covid, un prezzo forfetario. Non è come un funerale calmierato, ma quasi.” “Mi sembra un’ottima idea.” “Non ci dormo più la notte. Quando mi chiamano i parenti in quarantena, li immagino lì, bloccati a casa, mentre devono seppellire una madre, un padre. Facciamo le videochiamate, stanno seduti sul divano e gli invio i documenti via email: per un funerale che non ci sarà. Niente vestizione, niente saluto, non c’è una cerimonia, non ci sono fiori, non ci sono abbracci a sorreggere e mi sento male.” Ci facciamo un altro caffè in silenzio: stiamo a distanza, tengo sempre su la mascherina quando sono fuori casa perché ho paura di contagiare qualcuno, anche se sto benissimo. Anche se so che coi miei bronchi e polmoni stanchi mi accorgerei subito se qualcosa non andasse. Ogni due-tre anni mi faccio una bronco polmonite asintomatica, finché non sto malissimo, allora mi fermo e mi curo. È periodo di allergie e se mi affanno a pedalare, sarà per l’asma. Il telefono del medico è sempre occupato e non riesco a chiedergli la prescrizione degli inalatori. Per me è fondamentale continuare ad andare in bici, anche con l’asma. L’anno scorso, a maggio, con l’ultima bronchite lo pneumologo aveva dovuto scrivermelo accanto alla prescrizione medica, con quella scrittura arzigogolata e illeggibile tipica della categoria: ‘Massimo riposo, niente bici, né sigarette.’
La porta che da sulla strada è chiusa, ma un signore bussa. Di lui vedo solo gli occhi gonfi, arrossati, e le mani tremanti, Ga apre: “È venuta a mancare mia madre”. Lo fa accomodare alla scrivania; io resto sul retro a guardare lo schermo spento del cellulare. Non potremmo ricevere gente in ufficio, bisognerebbe fare tutto online. Ma cosa fai rimandi a casa il dolente? Gli spiega le cose burocratiche, gli allunga i moduli, gli conferma che è necessaria la constatazione di morte da parte di un medico anche se è già uscita la guardia medica e che poi passerà anche il necroscopo.
Mi alzo, chiedo l’indirizzo, “Sarò lì in trenta minuti. Vado a prendere l’auto.” Porgo le condoglianze, senza stretta di mano.
Arrivata a casa mi cambio, sfilo gli orecchini vistosi e la fascia colorata, mi vesto di nero e prendo l’auto.
Mi sveglio alle cinque del mattino. Fuori gli uccellini cinguettano. Ero in una mortuaria, prima, nel sogno. C’erano le casse piene, accatastate. Dentro c’erano le salme nude, che però sembravano feti senza volto. Avevano la pelle gialla, trasparente, come quella dei gechi, si vedeva chiaramente il sistema circolatorio immobile. Il sangue depositato sul fondo, sulla schiena o sul fianco. Erano buttati dentro alla rinfusa, alla meno peggio. C’era uno con un braccio penzoloni. Un altro con la testa in una posizione innaturale. Molti rannicchiati in posizione fetale.
Erano massa informe dentro il rettangolo bianco dell’imbottitura: non avevano volti e non avevano nomi. Alla caviglia c’era un cartellino col numero e controllavo che corrispondesse al numero indicato sulla cassa, poi cominciavo a metterle in ordine numerico. “Non è necessario” – diceva sconsolato l’infermiere – “Tanto vanno bruciati tutti, lascia stare, torna a casa”. Io non gli badavo, lo lasciavo parlare – “Vai a casa” - mentre organizzavo le casse, che erano molto pesanti e faticavo a spostare. Sistemavo dentro i corpi, li ricomponevo in qualche modo, raddrizzavo il bacino, le gambe, sistemavo il cuscino sotto il capo e intrecciavo le mani. Mi stupiva l’assenza di rigor mortis – ma era solo un sogno. L’importante era che venisse fatto ordine e, alla fine, la cassa col numero inferiore era davanti all’ingresso, pronta per il carro funebre, sarebbe stata trasportata per prima al forno. Le ho disposte in tre file perfette, seguendo le linee delle fughe nere del pavimento. Poi ho chiuso i sacchetti dell’immondizia che giacevano aperti in un angolo e li ho buttati nei cassoni fuori. Ho spazzato e controllato che le casse fossero ben allineate. Mi sono tolta i guanti, lavata le mani e ho spento la luce.
Mi sveglio alle cinque del mattino. Fuori gli uccellini cinguettano. Li sentivo anche 4 anni fa, mentre travagliavo nell’acqua calda con accanto mio marito e l’ostetrica. Dicono che li senta solo io, a nessun altro arriva il loro arrivederci notturno, ‘Che strano’ - penso, ma ormai sono le 6.20, c’è silenzio e sorge il sole. Le sirene dell’ambulanza si sentono meno di giorno, aumentano con lo scendere della sera e di notte. Dicono che le crisi respiratorie si condensino proprio in quei momenti. È passata un’altra notte. Fuori dalla finestra vedo i colori cambiare. L’oleandro poco fa era una macchia scura che si gettava sul vetro e ora, invece, è il solito oleandro di tutti i giorni con la luce rosa e arancio dell’alba e dei tramonti. Ora che il giorno inizia posso addormentarmi di nuovo.