Lotto fieramilanocity
“Lotto fieramilanocity apertura porte a destra” finisco incastrata tra le porte a sinistra, che sulla linea rossa non si aprono mai, e il resto dei corpi sudati in questo torrido venerdì di giugno: sciopero ATM.
Non c’è spazio, non si respira e l’aria condizionata non basta a raffreddare tutta questa marmaglia. Stare a stretto contatto coi propri simili è proprio ciò che più ti fa odiare i tuoi simili. Vorrei solo farmi una doccia e invece sono ricoperta di sudore, mio e altrui, le porte faticano a chiudersi, il treno resta fermo per interminabili secondi, poi riapre le porte “Si prega i gentili passeggeri di non ostinarsi a salire a treno pieno e di facilitare la chiusura delle porte”: le porte si aprono e si chiudono più volte, la gente protesta, qualcuno scende, qualcun altro spinge per entrare.
Mentre mi concentro per restare calma e non soccombere all’atavico terrore della folla, avverto chiaramente una notevole erezione, poggiata sul mio fianco destro. Riesco a voltare la testa per guardare chi mi sta accanto e ti riconosco al volo, anche se ora sei solo un uomo visibilmente imbarazzato che non ha possibilità di fuga e che non sa assolutamente cosa farsene di questa erezione.
Tu mi hai già riconosciuta da un pezzo, direi.
Non riesco a torcere il resto del corpo, ma appena le porte si chiudono, mi tolgo gli occhiali da sole e le cuffiette: ti guardo dritto negli occhi e allungo la mano. Attraverso i vestiti non sarà la sega del secolo, ma d’altronde sono innervosita dalla ressa e tu sei a disagio, distenderci un po’ non può che far bene: andare su e giù è tutto sommato rilassante e per giunta non c’è fretta, facciamo le cose con calma.
Guardami.
Guardami ancora.
Manca l’aria e si muore di caldo.
Fai le smorfie e non sai cosa fare, perché di fatto non puoi fare nulla, sei incastrato qui con me e più che sbuffare e guardarmi non puoi fare. Chiudi gli occhi e ti mordi il labbro inferiore.
Guardami.
Guardami ancora.
Qualche fermata dopo ti sento e ti vedo venire, sorrido mentre mi rimetto gli occhiali da sole. Non hai detto una parola.
“Cadorna fermata Cadorna, apertura porte a destra” la pressa si allenta, riusciamo a scendere e a correre per prendere la verde, ma ci perdiamo di vista e veniamo inghiottiti dal resto della calca.
Il lunedì seguente è tutto come sempre, saliamo sul solito vagone e ci dirigiamo in ufficio.
Da che mi sono trasferita a Lambrate abbiamo preso la metro insieme tutti i giorni allo stesso orario, primo vagone del treno, scendevamo a Loreto, prendevamo la rossa salendo sulle carrozze centrali - nelle fermate chiave: porta Venezia, San Babila, Duomo, c’è più ricambio di persone e quindi più possibilità di sedersi – e via, quasi fino a Rho fiera. Al ritorno uguale, ma era più difficile beccarsi perché a volte mi fermavo io per gli straordinari, a volte tu. Così per sei anni. Non ci siamo mai rivolti la parola.
Solo una volta ho sentito la tua voce: una sera mentre rincasavo da lavoro, stavo uscendo dalla metro su via Pacini ed eri dietro di me, ma non ci avevo fatto caso, stavo attraversando e un auto ha inchiodato a pochi centimetri dalle mie gambe “Coglione, la prossima volta mettimi sotto così mi rifai nuova”, poi la tua voce tonante ha finito di coprire di insulti l’automobilista.
Avrei voluto ringraziarti, ma invece mi sono limitata a sorridere imbarazzata e ho tirato dritto fino a casa. Tu mi hai seguita. E avrei voluto dirti “Sali”, ma non potevo perché, lo sapevi, a casa ad aspettarmi c’era già qualcun altro.
Quella è stata l’unica occasione in cui avremmo potuto dirci qualcosa, oltre all’episodio dello sciopero ATM, per il resto il nostro “rapporto” non era altro che occhi pesti la mattina, schiena sfatta la sera, dopo 10-11 ore al pc, io che leggevo e tu che ti sedevi accanto se trovavi posto oppure ti paravi davanti a leggere il titolo del mio libro per 17 fermate. Avrei potuto definirti stalker e tu avresti potuto fare altrettanto, ma il punto era che nessuno dei due stava scomodo in quella situazione. A te evidentemente stava bene fissarmi per 50 minuti la mattina, a me stava bene lasciarmi guardare e magari affrettare il passo per passarti davanti nel salire le scale.
Ci andava bene fare la strada insieme ogni giorno, senza mai parlarci, senza mai sfiorarci. Un paio di volte ti ho beccato nel quartiere mentre correvi, io a spasso con cane e sigaretta, e devo ammettere che tolto lo zainetto aziendale e gli abiti da ingegnere informatico, quelle spalle avevano tutto un altro appeal. Alto, direi sopra il metro e ottanta, e con delle belle spalle che mi facevano pensare al nuoto. Anche se vederti sudato fare jogging mi faceva pensare a tutt’altro.
Poi un giorno mi hanno cambiato i turni, mi sono trasferita in una nuova casa, una fermata dopo, e ci siamo persi di vista.
Ti ho rivisto qualche settimana fa mano nella mano con una ragazza, mora e bassina, coi jeans rotti al ginocchio e le labbra carnose, ero a spasso mano nella mano con mio figlio, ci siamo guardati, come sempre, ti ho sorriso, come sempre, e tu hai finalmente ricambiato.