Lungomare
La cosa più difficile da immaginare è il mare senza il rumore del mare. Le barriere frangiflutti fermano le onde che, in questa stagione, sono comunque quasi inesistenti. È un mare dal suono cauto, impercettibile dal bordo della strada. Anche lei silenziosa, con le poche auto che passano a velocità ridotta. La cosa più facile è immaginare la scena come un lungo cinemascope, in cui persino quell’uccello -di cui non so riconoscere famiglia e nome- non si stanca nel battere le ali ma stalla a mezz’aria. Il leggero vento che tira dal mare è sufficiente per sfruttare l’unica legge fisica che gli interessa.
Se non fosse per il vociare delle persone, gli schiamazzi dei bambini, l’occasionale trambusto dei tavoli da ristorante che tornano ad occupare i dehor. Se non fosse per i lavori di casa, la canna dell’acqua per innaffiare. Se non fosse per il suono delle chiavi dell’auto in tasca e il numero impressionante di pensieri che per molto tempo si ingigantiscono fino a spingere sulle pareti del cranio come a voler uscire a tutti i costi, tutti assieme, pericolosamente. Se non fosse per questa sensazione di vuoto che poi, senza annunciarsi, prende il campo e cambia l’ordine delle cose.
È un brutto lungomare, un lungomare pensato così: spastico e frettoloso, d’assalto su un mare recintato fuori. È un lungomare viziato nella forma e nel contenuto, studiato da un uomo che non aveva cura per la forza della natura e della sua giustezza.
È un brutto lungomare ma è un lungomare invisibile al cuore, il suo merito più grande è solo questo: normalizzarsi nella pietà dei tutti giorni di quei lungomare abitati, tenuti in vita, popolari. Se togli il mito della fatica, della ricerca, se togli il mito della difficoltà naturale dell’uomo contro il tutto, se togli il mito dell’incontaminato da guida turistica, da abbellimento fotografico, da vanità.
Se resta solo un lungomare, il campo estivo in spiaggia, il tizio di colore che mette la pubblicità in buchetta.