Ma il corpo non mente
È al telefono con la madre, le sta raccontando dell’ultimo colloquio, l’ultimo della selezione. Ne ha già passati parecchi, all’altro capo si intuisce una certa euforia, la felicità materna esagerata ed orgogliosa. Ha gli occhi color nocciola, i capelli castani lisci, lunghi fino alle spalle, la montatura degli occhiali squadrata e la faccia pulita. Estremamente semplice, quasi banale. Dopo aver riagganciato con la madre, chiama il fidanzato ricalcando la conversazione precedente. Il tono varia di poco, leggermente più acuto, con un registro sdolcinato.
Sono di fronte a lei e per un istante provo una punta di invidia. Come la avverto per l’uomo che le sta seduto accanto, a gambe divaricate, come a segnalare che lui tra le gambe ha qualcosa di estremamente importante e che tutti i passeggeri dovrebbero saperlo.
Buio, segue una leggera pressione alle orecchie, galleria, sbadiglio e bevo un sorso d’acqua. Mi piace come si modifica il suono in treno quando si entra ed esce dai tunnel, il rumore dell’aria, della pressione che varia, immagino che i neonati vivano una sensazione simile al momento del parto, anche se fisicamente più violenta.
In galleria con uno sguardo al finestrino si abbraccia l’intera scena, potrebbe benissimo essere un dipinto di Rembrandt. Le diverse pose dei passeggeri congelate in un istante, un ritratto corale di un momento qualsiasi. Per qualche secondo diventiamo arte, brilliamo nel buio, e poco dopo torniamo ad essere carne guasta. Meschina carne.
I filari di alberi sulla destra, scorrono veloci come in un videoclip, vedo il riflesso del braccio della ragazza, sinuoso, con al polso un orologio sportivo sproporzionato.
Torno a concentrarmi sull’uomo dalle gambe aperte, anche per lui sento salire l’invidia e no, non è invidia del pene: è per quel suo stare scomposto senza domandare scusa, per i passi sicuri la notte quando rincasa, per non temere per il proprio corpo, al massimo per il portafoglio. Per poter muovere quel corpo libero e fiero nello spazio, nei luoghi, per non conoscere le situazioni rischiose. Lo fisso mentre gli scrivo una sceneggiatura: la sera fuori con gli amici beve e non c’è pericolo che qualcuno fraintenda le sue intenzioni, non rischia di finire a gambe aperte dentro a un fosso. Beve, si diverte e torna a casa. La mattina dopo prende il treno e, per stare più comodo, si svacca, fintamente incurante della giovane che gli siede accanto in modo ordinato.
Credo di invidiare entrambi per il semplice fatto di non essere me. Capita a volte di voler essere altro, no? Di svegliarsi e voler abitare un corpo diverso, con una vita nuova, una storia nuova, una storia semplice, ecco, anche banale, come presuntuosamente congetturo sia la vita della ragazza dalla faccia pulita. Una storia dove chiami la mamma e lei ti conforta, gioisce dei tuoi successi. Dove puoi permetterti di sbagliare perché hai le spalle coperte, ma soprattutto perché ti ameranno tutti comunque, perché sei fortunata, perché hai tante opportunità. Una storia lineare, senza grandi colpi di scena, anzi, una storia che culli, che faccia addormentare. Una storia noiosa. Ogni intento che si trasforma in successo, solo gioia, pura gioia: l’amore genitoriale, gli amici, l’amore romantico, quello filiale e vissero tutti felici e contenti. Gli uccelletti che cantano come nei film Disney. Mi piace sognarmi in storie alternative, totalmente lontane dalla mia, storie che non vivrò mai, che non conoscerò appieno e che forse non saprei nemmeno gustarmi.
Non basta un buon piatto per avere appetito, ci vogliono anche la compagnia e il vino giusti. Io sarei la compagnia sbagliata anche in un’altra storia, finirei col guastarla, con l’interrompere il flusso positivo degli eventi, con qualche catastrofe, qualche parente in psichiatria, qualche difficoltà economica, qualche sfratto esecutivo, gli assistenti sociali. Arrivata in una nuova storia col vecchio biglietto da visita mi franerebbe tutto sotto i piedi e, qualora il fato mi graziasse, impazzirei per la quiete, cui non sono abituata. Allora mi immagino se veramente potessi non essere me fuori di me, ma proprio altro, senza la coscienza attuale, se potessi uscire dal mio corpo limitato e limitante per essere una persona diversa, per vivere emozioni e sensazioni nuove, estranee agli eventi passati. Se potessi ogni giorno resettarmi ed essere una nuova me, migliorata, un upgrade quotidiano, con la memoria modificata, senza traccia di passato, un concentrato di felicità, dolcezza, comprensione, oh quanta poesia.
Alzare la pelle e sfilarsela di dosso, come col vestito quando rincasi, le scarpe gettate in corridoio e poi i passi veloci e pesanti della giornata sfinita. A volte vorrei spogliarmi così, farmi una doccia calda e nello specchio appannato trovare un altro nel mio accappatoio. Sogno uno sguardo differente, parole sconosciute, ricche, fertili, parole e pensieri che volino alti, che sfidino la retorica, che siano coraggiosi, sogno che siano maschi. Sì, voglio pensieri maschi per non sentire la paura nel corpo, per non doverlo giustificare, quel corpo, ad un colloquio lavorativo, voglio pensieri maschi e una pelle elastica che muti forma e colore, voglio che suoni come un tamburo.
Poi il treno arriva in stazione e ringrazio le mie braccia forti che mi fanno calare la valigia senza esitazione, a differenza della ragazzetta smilza. Ringrazio le gambe lunghe che mi fanno superare ancheggiando l’uomo col pacco più importante del convoglio. Arrivata a casa mi infilo in doccia e ringrazio ogni centimetro della mia pelle per non avermi abbandonata, anche se le cicatrici mutano colore al variare della temperatura, anche se la mia pelle troppo bianca è coperta di segni e lividi. Però è tutto qua, concentrato sotto il getto caldo della doccia, questo dannato corpo che non mi fa andare oltre le mie sensazioni, che vorrei abbandonare e poi riprendere e poi ancora lasciare andare. È tutto qua, finito imperfetto asimmetrico, ma è qui pazientemente solo per me e anche se non posso azzerare i dati, anche se non posso mentire sul passato e, anzi, sarà sempre qui, nonostante tutto il corpo non mente mai. E lo sento fremere sotto l’acqua calda, felice, dopo il gelo della giornata, lo sento mentre si distende, mentre cerca la quiete e fedele mi consegnerà alle lenzuola pulite e ben tese, sognando il sonno ristoratore. Domattina nuovamente al risveglio vivrò con le stesse membra di sempre, senza mai poterne uscire, senza mai poter realmente essere te, senza vivere il tuo corpo, ma essendone esclusa a priori, privata delle sensazioni altrui, padrona sola dell’unicità del mio corpo. Così anche domani inseguirò invano le parole, cercando un varco nel limite. E anche domani le parole mi tradiranno, saranno d’altri, distanti e perdute.
Ma il corpo non mente.