Uno strale di memoria scocca dalla luce della finestra nel dolce risveglio di un mattino, e c’è quest’uomo, questo ragazzo, con ai piedi quei sandali orrendi che si vedono parecchio in giro. C’è altra gente intorno, seduta per terra a cerchio, tu non sai dove ti trovi né sai chi è quest’uomo coi sandali che fa il suo ingresso, audace, eccitato dalla prospettiva di entrare a far parte del gruppo. Dal vociare diresti che si tratta di una festa, ma l’atmosfera è quella di un raduno pomeridiano in casa di qualcuno che possiede una chitarra. Nello strale ora il tizio con i sandali è seduto nel cerchio ma sta zitto con la faccia impalata, si tiene a fatica le ginocchia al petto, come un attore secondario che si è giocato tutto calandosi con una fune dalla trave maestra, ma la fune era troppo corta e lui è rimasto appeso con i piedi nella scena. Non c’è posizione del corpo che possa aiutarlo a contenere l’imbarazzo, attende pentito, con i frantumi dell’entusiasmo riflessi negli occhi, i cui movimenti involontari tradiscono ancora la speranza che giunga il suo momento. Stanno suonando canzoni in inglese che lui non ha mai sentito, lui arriva al massimo al canzoniere dell’Azione Cattolica a parte Balla di Umberto Balsamo e una House of the rising sun come perla esotica. Passano pochi istanti e il tizio coi sandali orrendi sparisce dalla tua mente, ma ne resta la marcatura e un particolare degli occhiali, la montatura da tiro e caccia. Cosa cazzo mi è tornato in mente, esclami con la bocca che sta esaurendo uno sbadiglio, e subito arrivano a ruota cose contorte, che possano spiegare in che punto del cerchio eri tu quando questa immagine si è fissata in testa e perché mai la trama delle tue memorie abbia incluso anche questo filo di sandali e occhiali da tiro e caccia. Un soffio di raziocinio cerca di alzarsi dal letto spiegandoti che il cervello plasma ed è plasmato dalla conoscenza del mondo, dalle esperienze fatte fra le bollicine del reale e dai ricordi connessi per vasi comunicanti. Se un abitante del Borneo non sapesse tenere insieme la vista attuale di un pitone con il fatto che quando era piccolo ha visto un pitone stritolare un cinghiale fino ad ingoiarselo intero, ci troveremmo con un abitante del Borneo che si mette ad accarezzare un pitone, un bel guaio. Oggi la tecnologia aiuta, infatti esiste un video che mostra un pitone stritolare un cinghiale. Nei commenti un tizio ha scritto «Serpenti di merda bruciateli tutti quei serpenti di merda», un altro «E i vegani? Muti?!», un altro «Minchia pare una donna che divorzia».
Ti chiedi cos’è tutto questo ricordare, cosa sono questi filmati che appaiono come castelli in controluce. A volte, guardare indietro verso il nido è doloroso, tanto quanto sopravvivere alle raffiche implacabili che da quel nido ci hanno fatto cadere. Alcune memorie portano una vertigine simile al panico, altre l’ossessione del crollo strutturale, cioè ossessione di perdere il suolo, paura di precipitare come un frammentucolo in un polverone grigio nero irrespirabile e quasi cremoso. Oppure portano sconcerto per cose che si spezzano, funi che non reggono il carico, sentimenti di un’esplosione imminente, una fuga di gas, un tubo cementato nell’asfalto che si è gonfiato per mesi se non anni e scoppia trinciando di netto il tuo edificio di residenza. Basta tenere lente le maglie della ragione e ci si rivede bambini con una festa intorno e voci allegre che affollano una stanza adiacente, alcuni aghi di pino ricoperti di spray color argento e candele rosse dei lavoretti di scuola elementare accese su una tavolata in tregua, con una tovaglia ornamentale cosparsa di croste di pane casereccio, il profumo di un camino. Le voci schiariscono, sono quelle di alcune cugine che cantano “Alberi di Natale”. Appare un vecchio, un nonno ultra-miope, quasi non si vedono gli occhi. Si solleva dalla poltrona, allarga le braccia e bofonchia Auguri! La sagoma del suo corpo va in cortocircuito con l’interferenza televisiva di uno spot Vecchia Romagna. Il vecchio ride, interferenza, poi riappare il suo corpo in terra, morto da un paio di minuti, non sai altro.
Vorresti prendere uno di quegli scienziati che fanno esperimenti sulla memoria e chiedergli a che punto stanno, farti dire che succede nelle distese temporali del cranio. Una reminiscenza evoca la successiva stabilendo sequenze intricate che ci aiutano a comprendere meglio il mondo intorno a noi. Se questo è l’assunto di base, non capisci cosa mai devi comprendere tu del mondo attraverso la faccia zittita del tizio coi sandali in quei tre secondi di giovinezza. Con uno sforzo risali fino a circa venticinque anni fa, ma vi trovi solo altri punti interrogativi agganciati a strali e strali di tutti i mondi trascorsi nel frattempo che appaiono dal niente insieme a pezzi di storia tua: tu seduto su un divano a guardare da una finestra un pino che oscilla per un fremito di vita interiore al ralenti, tu all’edicola in via Murri per una copia del numero di Scientific American che avevi sbirciato tra un colpo di straccio e un altro al pavimento dell’emeroteca dove lavori a giorni alterni, tu mentre getti le scarpe per terra all’ingresso di casa in via Santa Margherita e una marea notturna di vissuto improvvisamente vivido ne allaga la prima stanza a sinistra. Questo però è un ricordo più consapevole. Ti viene in mente un filmato che mostra un fotografo in mezzo alla savana. È appostato accanto alla sua jeep, una leonessa compare dal niente alle sue spalle, lui se ne accorge quando lei è così vicina da poterlo annusare. Lui resta immobile, congelato, con tutta la vita negli occhi e nelle braccia strette ai fianchi. Ma nella savana aveva deciso di andarci di sua spontanea volontà. E allora qui è facile: spegnere il ricordo, tanto non porta a niente, tanto hai interrogato quel vissuto in tutti i modi ed è sempre finita a zannate.
Piuttosto, meglio concentrarsi sullo strale scoccato dalla luce nel dolce risveglio di poco fa. Pensi a cosa avrebbe voluto suonare quel giorno il tizio coi sandali e fai molta attenzione, adesso, a liquidare come insignificanti questo genere di domande. Vorresti avere un foro nel cervello sul punto in cui è allocato il senso del suo riaffiorare, uno spioncino per conoscere i neuroni riattivati e per cercare tracce di proteine in eccesso che quel giorno hanno alterato molecole lasciando attorno a un ricordo tutta quest’area edificabile, l’analisi del virus comparso nel presente sulle tende bianche, nella luce del sole del dolce risveglio del mattino. Perorando la spiegazione optogenetica, anch’essa appresa per sommi capi su Scientific American, noti che il sole in camera da letto sorge a sinistra come anche la luce nello strale: è della stessa intensità, ha la stessa tonalità, a meno che non te ne sia convinto proprio ora e un rifacimento inconscio, del tutto fortuito e artificiale, non abbia adattato gli attributi della scena, che infatti avevi già decifrato come un raduno pomeridiano.
Sulla medesima rivista veniva poi spiegato che si possono provocare impulsi elettrici e indurre la trasmissione di informazioni tra i neuroni. È stato sperimentato sui topi. Si può aumentare l’eccitabilità dei neuroni dell’ippocampo di topi che si muovono sul tracciato di un cerchio per far crescere la probabilità che rispondano in un certo modo ogni volta che tornano su un certo punto prestabilito, e con certe sostanze si possono attivare certe proteine in certi neuroni e stimolare certe cellule fino a che queste non si fanno iniettare, in particolari condizioni come ad esempio la circostanza di una luce, un ricordo, proprio come quello del tizio coi sandali. Oppure, bisogna ragionare sulla forza della connessione sinaptica e delle cellule nell’amigdala, dove la memoria si annida. Scoccano altri strali, non sai se prima o dopo aver fatto un’ipotesi su cosa possa aver trasformato quel momento in un ricordo, cioè che saresti proprio tu il magnete di disagio nel cerchio, dove arrivasti spalancando le braccia e dove ti ammutolisti nell’indifferenza di persone sconosciute. E sono quindi strali di recite scolastiche, dove fai la parte di un ubriacone, poi quella di un tale dal nome Zazà, nelle cui spoglie ti dimenavi su un palco tirato su alla meno peggio, sotto la gigantesca scritta Ugola d’oro, menando di qua e di là una ramazza. Ti hanno sempre detto che eri un piccolo mattatore, ma non c’è alcuna traccia concreta, non esiste una ripresa, non un filmato, non un Super-8, solo due foto scolorite del 1980 e del 1981 intraviste qualche giorno fa in un cassetto, nella prima sei col vestito da pagliaccio e nell’altra sei a cena con accanto tuo fratello che indossa la maschera di Frankenstein, si intravede una lunga tavolata. Per il resto è tutto polverizzato, sotto i detriti stanno come occhietti intermittenti i neuroni in comune tra il ricordo di quel tizio e quello di una cosa molto simile a questo dolce risveglio del mattino ed ora persino le tue recite alle scuole elementari, ed un leggero calore febbrile in procinto di farsi nausea come effetto della sovrapposizione.
La fortuna di Marcel Proust sta nel fatto che al suo tempo non c’era molta esperienza nell’ambito delle neuroscienze. Nell’esperimento descritto nella rivista, i topi vengono messi a familiarizzare con due gabbie e a un certo punto, davanti a una delle due, ricevono una scossa elettrica alle zampette. Il risultato è che successivamente si paralizzano dalla paura anche davanti alla gabbia non associata alla scossa. Può essere che quel giorno avessi fumato qualcosa e che ti fossi addormentato, o che avessi avuto un blackout di qualche minuto; forse fu quello il giorno in cui ti era precipitato in testa uno specchio con tutta la sua cornice dell’Ottocento. Cioè, forse avevi subìto anche tu una specie di scossa elettrica, un trauma, mentre pian piano in una stanza dalla forte luce diurna si radunavano le persone del cerchio e il tizio con i sandali orrendi e gli occhiali da tiro e caccia e quell’aria di voler suonare le canzoni dell’Azione Cattolica, mentre tu sei fatto di qualcosa, e quando ti svegli o ti riprendi dal blackout eccoti lì, cattolicissimo, con la chitarra e gli occhiali da tiro e caccia e tutte le aspettative di far parte del gruppo.
Vorresti contattare gli scienziati dell’articolo per chiedere come fare a disattivare le cellule che legano la luce del risveglio del mattino e quel tizio che nel frattempo ne ha inquinato la dolcezza, prima che ci pensi il declino cognitivo naturale e il decadimento della proteina, come il topo vecchio che non connette più il ricordo di due gabbie diverse. È sempre più angosciante accordare tra loro le suggestioni inesatte e i frammenti di insegnamenti sepolti, sei in una miniera di materia prima irriconoscibile, non più fra le lenzuola arruffate dopo la notte sul perimetro di mare calmo in cui credevi di poter pescare con in mano soltanto una lenza avvolta a un dito. Compare un ragno sulla ragnatela, un sasso con gli occhi deformati dalla rabbia, un colore saturo fluorescente, persone grasse che sorridono dolcemente mentre incombe qualcosa, la testa di un orso da un finestrino, una hostess ti serve da bere. Tu la guardi oltrepassando il suo abito nero nella cornice bollente dei raggi di sole d’alta quota. Quindi, la luce splendida di stamattina è lo stimolo che riattiva il ricordo di quel tizio, anche se le due cose non c’entrano l’una con l’altra. Ma c’è anche un’altra ipotesi: il tizio con i sandali e gli occhiali da tiro e caccia compare dal niente in un momento qualsiasi, al culmine di un dolcissimo risveglio ad annunciare a questo cerchio che il cervello è un brulicare di bolle, di luce, di proteine, cellule e neuroni modificati e livelli di calcio che si gonfiano e si sgonfiano, e con loro ogni motivazione logica che abbiamo di noi stessi.
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