Penso dal divano a te, ma in realtà al mio piccolo paese, appendendo al muro del pianto le mie recriminazioni, perché non mi hai lasciato sognare un prato verde con tutti i miei amici sconosciuti.
Adesso posso, adesso posso, ma non mi importa vederti, senza nulla da raccontarti, stanca di guardare dentro di me in cerca di una storia degna del tuo ridere.
Ho sempre avuto opinioni fortissime, una gran voglia di sentirmi nel 2006 e prendere il sole con la crema abbronzante e gli occhialini trovati sul Cioè. Ti mostravo i miei quattro inizi di un ipotetico romanzo del quale avevo già il titolo pronto, di una banalità imbarazzante. Scrivevo fingendo di avere 14 anni, un’età lontanissima e magica, che così avrei potuto affrontare preparata. A guisa di autoeducazione, leggevo Recalcati e la mia attenzione crollava al terzo paragrafo, ma non ho mai sofferto di anoressia. I 14 anni li ho poi buttati ascoltando pop punk in cameretta, un passaggio obbligato verso le mie manie di drammaticità, il mio spirito ribelle acquietatosi sulle note di qualche canzone francese, di giorni di gloria e d’entusiasmo. Perché le mani bisogna sporcarsele a servizio di qualcuno e non riusciamo a costruire un ordine che non restringa la nostra visuale sul cielo?
Mio padre da giovane scriveva molto meglio di me, con ordine ed una bella grafia, raccontando le pareti della sua stanza in prospettiva, dal basso verso l’altro guardava mia madre per questioni di statura, ridendo delle ore più buie.
Se l’amore non dura, se adesso il mondo è nuovamente a portata di mano, ma proibito ai nostri palmi e siamo solo pelle, vorrei mi parlasse senza la mediazione delle #frasibelle2020; ci toccassimo almeno per qualche secondo il volto, per provare a sentirci, se è vero che ci somigliamo o se è solo un fattore scientifico, lontanissimo, la gif della felicità mandata con finto stupore. Se sento ruvido, mi ritraggo, prometto non è una scusa per abbracciarsi; non lo ho mai fatto, non mi interessa se non vuoi essere IL mio. Prendiamo i nostri uni e non facciamone assolutamente niente; di coppie fallimentari sono pieni i giardini pubblici e le famiglie stanno a tavola ma con gli occhi altrove.
In questi due mesi allungati davanti e dietro di me ho imparato ad esorcizzare tutto dormendo fino a tardi e non sono nemmeno riuscita a finire i 5 libri da riportare in biblioteca entro il 25 febbraio e rimasti a vivere con me più a lungo per un caso fortuito. Hölderlin mi guarda, sussurrandomi in un idioma da me abbandonato dopo poche frasi. Tutte di circostanza, come ti chiami, da dove vieni, hai fratelli e sorelle, che cosa sono i tuoi genitori di lavoro.
Possiamo dire anche le bugie? Semanticamente mi viene in mente spesso quanto siano ugualmente esatte, precise. Padroneggiare una frase è più semplice se si tratta di un monologo già immaginato nella doccia, di un viaggio visto alla TV che ti vergogni di non aver mai fatto e allora hai guardato un po’ di nomi di hotel e che sbatto quella sera a cena quando servivano solo pesce e a te non piace. È così che costruiamo le nostre fortezze, copiando.
Nello stesso modo ci siamo anche immersi in questa poltiglia, ci siamo sporcati e fatti male e quindi adesso all’accettare i rischi preferiamo l’ognuno per sé. Sia benedetto colui che viene nel nome dell’Indifferenza, così non mi disturba.
Ho ancora la cicatrice sul palmo, quella che dice ti voglio bene ma era buio e pioveva dunque non si è sentito. Correvo, è facile trovarsi con la faccia per terra, un sollievo qualche volta. Torniamo, torniamo dove non siamo mai stati ma dove abita la nostra essenza, il nostro costruire.
Vorrei raccontare di una casa che obbedisce a diverse leggi, tornare indietro adesso e poggiare una mano sulla spalla a mio padre.
Butta tutte le tue lettere d’amore.
No posts