Milano, 1996
Il nucleo territoriale è formato da circa 15 persone che si riuniscono una volta a settimana per discutere degli scenari politici presenti e futuri, organizzare iniziative e bere un paio di birre. La riunione è ogni giovedì sera alle 21 nella sede di via Faruffini, ma l’appuntamento informale è davanti al Bar Gatto, a 30 metri dalla porticina in ferro e vetro. Il Bar Gatto è così anonimo da scomparire nelle memorie, vivendo di una bruttezza e di un fascino incapaci di insediarsi nei ricordi degli avventori. I gestori cinesi sono a Milano da alcuni anni ormai, parlano ancora un pessimo italiano e giocano il loro appeal esotico elargendo sorrisi a chiunque a qualsiasi ora del giorno. Capiscono le nozioni base del barismo servendo caffè e derivati mediocri, prodotti confezionati e un cesso pulito.
Matteo e Luca sono arrivati da pochi minuti, hanno una birra da 33 ciascuno e se ne stanno seduti nell’unico tavolino fuori dal locale. Le vetrine illuminano il marciapiede mentre l’insegna BAR scioglie una pozza di luce rossa proprio in corrispondenza del posacenere, appoggiato accanto l’entrata. Quando Giorgio li raggiunge lo accolgono ridendo e prendendolo in giro, una presa in giro collaudata da entrambe le parti che prevede i due esclamare:
- Uè terùn!
Mentre il ragazzo, poco più che maggiorenne, risponde con un accento calabrese soffocato dal milanese:
- Eh figa sono qui a mangiare le banane!
E giù risate. Perché ci sono poche cose che li fa ridere come una manciata di battute razziste, così per fare. E non è un caso che anche Giorgio, ventenne cresciuto qualche anno nella provincia calabrese e poi trasferitosi con la famiglia a Milano, se la rida. Perché a lui, da terrone moderno che non sente nostalgia di casa, i terroni gli fanno schifo. Dice che è gente che non ha voglia di fare un cazzo, che li conosce bene ed è vero ciò che si sente sul “loro” conto. Lui invece ha capito come funziona davvero, da quando è a Milano: se ti fai il culo, fai “il grano”.
- Che è l’unica religione che mi piace.
Lo pronuncia come un bauscia, come un cumenda, come un personaggio dei film di Jerry Calà che, tra le altre cose, è uno dei suoi miti.
Le chiacchiere davanti al bar passano veloci ed è il momento di levare le tende, in favore dell’ennesima riunione. Luca sente che questa volta è arrivato il giro giusto, in città l’aria è favorevole e devono cominciare a cavalcare quest’ondata positiva.Fanno per alzarsi e avviarsi.
- Maestri, gradite della cocaina?
- Grazie carissimo, è sempre così gentile.
- Che servizio!
E come nei film di Al Pacino, con il pollice serrato all’indice, pippano rapidamente un po’ di cocaina fuori dal bar, di cui sono gli unici clienti. Pensano spesso che quella coppia di cinesi tenga aperto fino a quell’ora solo di giovedì, per vendergli le poche birre che consumano. Pensano anche che se ci fosse qualcun altro si sentirebbero comunque intoccabili: tre ventenni italiani, ben vestiti e dalle facce rassicuranti. Cosa volete che dicano per un po’ di cocaina, quando si drogano tutti.
- Un giorno dovremmo incularci una cinese.
- Quella del bar dici?
- Che schifo, dio santo.
- Una cinese, un’asiatica.
- Secondo me puzzano.
- Puzzano di sicuro, e ho sentito dire che nella loro cultura è un peccato grave farselo mettere nel culo.
- E dove l’hai letto, su Focus?
- Coglione, pensa a te stesso e al tuo schifo di fantasie.
- Cinesi, brasiliane, italiane, ungheresi. Che cazzo te ne frega.
- Niente africane?
- Me le ero scordate!
- Il solito razzista.
E giù risate, un attimo prima di entrare nella saletta già al completo.