Millennium people
Dietro di me, una piccola folla guarda verso l’alto, il condominio di fronte. Una decina di persone, una decina di colori della pelle, di stili di vita e di abbigliamento diversi, eppure una comune espressione imbambolata, la bocca dischiusa, gli arti paralizzati a metà di un gesto. C’è chi tiene il proprio cellulare vicino all’orecchio, chi davanti a sé senza guardarlo, chi stringe il proprio döner kebab con una mano, chi con due, qualcuno lo tiene davanti alla bocca ma non lo morde, c’è chi ha le braccia tese da due pesanti buste della spesa e chi stringe un libro fra le mani, l’indice a tenere il segno, fra le pagine di un doloroso reportage di Svjatlana Aleksievič. Tutti guardiamo l’altro lato della strada, dove si sono accumulati due ambulanze, una camionetta della polizia e un camion dei pompieri. Non si sentono sirene, i lampeggianti blu inondano la strada di colori innaturali. Le insegne al neon punteggiano una serata nuvolosa, la via è coperta di cartacce e cicche di sigarette, persino il turco del kebab si affaccia dal baracchino per guardare in su e unirsi agli spettatori. La scena non è così rara nella metropoli, eppure il magnetismo di quelle luci blu, dei mezzi a bloccare la strada, degli uomini e donne in divisa che parlottano fra di loro e si guardano attorno... Non ricambiamo lo sguardo, i nostri occhi sono fissi sulla lunga scala che parte dal tetto del camion rosso e arriva fino all’ultimo piano del condominio, il sesto se non ho sbagliato a contare. In cima alla scala bianca, linea retta dalla terra al cielo, una piccola piattaforma recintata, per due persone al massimo, confina con l’unica finestra accesa di tutto il condominio. Mentre la sera lascia spazio alle tenebre della notte, quella finestra si staglia sempre più precisa e gialla, anomalia cromatica, punto focale dell’aspettativa urbana. Mi volto solo un attimo per scrupolo e noto con la coda dell’occhio qualche nuovo spettatore, passanti fermatisi all’improvviso o al rallentatore, con passi sempre più indecisi e lo sguardo sempre più calamitato dallo squarcio giallo nel muro grigio. Qualche condomino si affaccia dai piani più bassi o dagli edifici circostanti, i corpi si torcono in pose innaturali per assistere alla scena da una prospettiva diversa. Una bambina si lascia sfuggire un gridolino di impazienza ed eccitazione, lusso non concesso a noi adulti, ugualmente stregati ma allo stesso tempo disillusi, incapaci di credere davvero a quell’aspettativa che noi stessi abbiamo generato. Getto occhiate fugaci tutto attorno e noto sempre più teste inclinate, labbra dischiuse, sguardi ipnotizzati. Un bambino spinge il proprio volto contro il filo di ferro della recinzione, un altro stringe la mano del proprio padre, impaurito. Col passare dei minuti, i movimenti lungo la strada si rarefanno e la paralisi si allarga fino a inglobare entrambi i marciapiedi. Persino gli uomini in divisa hanno smesso di parlare fra di loro. Ogni tanto pare di intravedere un movimento davanti alla fonte di luce gialla lassù, l’illusione di qualcosa che sta per accadere. In questi momenti mi rendo conto con più consapevolezza dell’ansia circostante, dell’attesa che va ben oltre la semplice curiosità. Un pezzo di kebab cade a terra, una scarpa si sporca, il cibo si fredda, nessuno fa caso neanche alla rigida temperatura esterna, perché questa volta la luce lassù ha davvero cambiato colore, un’ombra sembra occupare l’intera finestra. I riflessi della lampadina ad alto consumo, calda vecchia e insostenibile, hanno ceduto il posto a sagome antropomorfe, terribilmente lente e lontane, difficili da distinguere.
Quando il pompiere esce con il corpo senza vita fra le braccia, l’applauso sorge spontaneo.