Il tempo è l’unica cosa che possiedo
perché non lo posso restituire a nessuno
anche se ne ho lo stomaco pieno,
lo vorrei vomitare dal pulpito sull’assemblea.
Non ho mai chiesto prestiti di tempo,
mi appagava anzi il non averlo:
voleva anche dire non avere spazio
per camminare nel posto sbagliato.
Voleva dire che un passo doveva seguire l’altro in fretta,
in economia.
C’è chi dice
o c’è il determinismo
o il libero arbitrio:
per me si alternano, nella vita.
E sono contraddizioni logiche,
ma io faccio poesia.
Ora sono così presente a me stessa
che non riesco a guardarmi da fuori,
come quando corro.
Quando vado così veloce
da superarmi da sola.
È così che il mio libero arbitrio
diventa arbitro naturale
della mia gara con me stessa.
O forse a superarmi sono altri tipi di fantasmi.
Ora vedo
una valanga
di mani
di corpi
estranei
crollare
su tasti
di pianoforte
che stride scordato,
un suono così strano e acuto
che parla senza parole
ai miei nodi ossidati interiori.
Quelli che non verranno mai fuori
e mi fanno corteccia,
e mi fanno ostile
a chi è più uomo
che legno da freccia.
*nota al titolo che non spiega niente
La mia maleducazione letteraria mi porta alla ricerca di nuove forme nelle forme antichissime. “Ne velut per tenebras aevum ignobile emetiar” è una citazione del paragrafo 7 dell’epistola 93 di Seneca, non una delle mie preferite, ma con una parte centrale densa di sententiae chiave particolarmente icastiche, con quei giochi retorici che a me personalmente solleticano le mani. È una supplica, vuol dire “che io non trascorra un’esistenza non degna, come attraverso le tenebre”. Le parole che vengono dopo e che ho letto solo dopo aver scritto questa scalinata di parole che c’è qui sopra continuano la supplica: “che io conduca la mia vita, non che ne sia oltrepassato”. Non voglio dire troppo, oltre al banale sottolineare la sorpresa -che sorpresa non è- di essere pervasa talmente tanto dalla lingua di un autore da fonderla e scolpirla involontariamente giusto qualche secolo dopo.
Fare un salto, evitare la morte, trasferirsi nella memoria.