Tutto dipende, in termini di esami e di vita, da ciò a cui facciamo caso o a cui ci imponiamo di non fare caso.
Il silenzio è qualcosa a cui solitamente facciamo caso. Quando c’è, aiuta la concentrazione.
Il silenzio è un punto fermo, una sicurezza, qualcosa che nessuno può toglierci. Nel silenzio si può pensare, immaginare, piangere, ridere, anche cantare. Il silenzio è universale: potenzialmente lo si può trovare ovunque. Sotto i portici di Bologna, sul 14 delle due di notte che fa capolinea a Due Madonne, in bicicletta, sui treni, sugli aerei, sui pullman, nelle moschee di Istanbul, nella metro di Parigi, sul monte Trebevič e sul porto di Livorno. Tutti luoghi adatti alla concentrazione.
Poi capita di arrivare a Roma. A Roma il silenzio non esiste, neanche nelle chiese, neanche per le strade la domenica mattina. Forse è per questo che, proprio qui, possono sorgere problemi di concentrazione.
A Roma il silenzio non piace, lo ricordano le macchine ogni momento. A Roma si conoscono in pochi ma si salutano tutti. Oppure si insultano ma comunque non stanno in silenzio.
Tutto questo a qualcuno potrebbe non piacere e, in quel caso, sarebbe necessario, prima, porsi un’altra domanda: perché questa necessità di dover trovare il silenzio ovunque?
Come sempre, la mente si sposta da una domanda all’altra. Come quando si studia per un esame e la cosa peggiore che può capitare è che studiare una qualsiasi cosa scateni in testa un uragano su tutte le altre cose che non si sono studiate e su cui ci si sente ancora insicuri, ostacolando la concentrazione e facendoci restare ancora più indietro.
Una risposta o un trucco della volontà? La capacità di non pensarci.
Anche se la consapevolezza è diversa dal pensiero. Per esempio, quando pensiamo non lo facciamo mai dividendo le cose in grossi blocchi intenzionali comodamente sdraiati sul letto senza interruzioni sapendo in anticipo a cosa stiamo per pensare, tipo: “Sto per pensare alla vita, al posto che occupo nella vita e a quello che è veramente importante per me” così possiamo cominciare a prefiggerci obiettivi precisi e concreti e progetti per il futuro, restando poi lì a pensarci finché non si arriva a una conclusione. Non è così che funziona. In genere, si tende a pensare alle cose importanti in modo incidentale, accidentale. Preparando un panino, facendo la doccia, su una sedia di ferro del bar De Lollis mentre si aspetta qualcuno, viaggiando sul treno mentre si fissa la scena che scorre dietro il finestrino alla quale si sovrappone il vago riflesso della nostra immagine. Così: a un tratto ci si ritrova a pensare alle cose che sono importanti.
È tutto il contrario della consapevolezza.
E se il pensiero è inconsapevole, si può pensare a come concentrarsi? Si può non pensare e concentrarsi?
E se alcuni fossero semplicemente inadatti a concentrarsi, come certi nascono privi degli altri o di alcuni organi?
La neurologia della distrazione.
E se per nascita e destino alcuni fossero costretti a vivere all’ombra della paura della distrazione totale e tutte le loro cosiddette attività fossero penosi tentativi di distrarsi dall’inevitabile Distrazione?
La paura è senz’altro un tipo di stress.
Allora, in mancanza di concentrazione, per non stressarsi è preferibile uscire. Prendere la metro, andare al parco. E, quando si è fuori, osservarsi intorno: scorgere soprattutto uomini e donne, tutti anziani. Perché l’Italia è un paese vecchio, pieno di pensionati che hanno paura degli immigrati che gli rubano un lavoro che loro, in realtà, non esercitano più. Oppure hanno paura che potrebbero rubare un lavoro ai figli che non hanno e che, se hanno, abitano all’estero perché qui, in Italia, il lavoro che vorresti non c’è mai. Uscire e vedere uomini panciuti e donne grasse in pesanti abiti marroni con le borsette coordinate. Uomini dalle facce morbide che si adattano al loro lavoro come le salsicce all’involucro di carta Uomini che parlano al telefono, uomini che guardano l’orologio per un riflesso incondizionato. L’impazienza vitrea degli uomini d’affari che stanno sempre molto più vicini agli estranei di quanto vorrebbero. Sulla metro le schiene si sfiorano, la fronte suda, la ventilazione ogni tanto cessa, le ventiquattrore si urtano. Uomini che non tollerano di aspettare o di stare impalati costretti, invece, a stare impalati tutti insieme e ad aspettare. Uomini con lauree in gestione del tempo e la classica aria di chi è prigioniero suo malgrado.
Ecco, quando ci si guarda attorno per distrarsi dalla paura di distrarsi poi va a finire che ci si intristisce, quasi ci si arrabbia.
In questo caso, è meglio tornare a casa, scrivere. Scrivere qualcosa sulla distrazione di cui, alla seconda riga, si è già perso il filo perché per strada le auto suonano, la gente urla, nessuno sembra apparentemente distratto perché apparentemente indaffarato. Nessuno, tranne voi.
Così, il tempo pare sospeso. Si entra e si esce di casa come si entra e si esce dalla vita delle persone per paura che potrebbero distrarci. Si chiude la gente fuori prima che siano gli altri a farlo con noi. Prima di ritrovarsi, distratti, a vagare in un mondo di cui non si conosce la mappa.
Si può essere consapevoli di tutto ciò e lo si può persino odiare consapevolmente.
Ma la verità è che, alla fine, distratti non lo siamo mai e tutto dipende, in termini di vita, da ciò a cui facciamo caso o a cui ci imponiamo di non fare caso.
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