Noi bambine non abbiamo scelta
Sono debole anch’io, anche io posso concedermi momenti di non lucidità, svegliarmi la mattina seguente con un fortissimo senso di nausea e scrivere messaggi di scuse.
Me ne convinco con la testa tra le mani, mentre tutto intorno è confuso, la gente canta, balla, parla e io vorrei solamente restare alienata per sempre, o almeno finché non ti deciderai ad arrivare per fermare tutto questo casino che mi fa girare la testa e spesso inciampare.
Piango, i singhiozzi escono con violenza dallo stomaco, li sento partire dal lembo di vita situato al centro della mia persona, lì dove sono racchiuse tutte le mie paure, quel punto preciso in cui risiede il mio passato, le cose che non ho mai raccontato a nessuno e che di nascosto continuano a logorarmi; lì dove ci sono tutte le mie convinzioni, le paranoie, le cattive abitudini, i gesti le frasi le parole che ho ingoiato senza prima masticare.
Su un divano sgangherato un ragazzo mi dice con sguardo convinto: «Hai un modo di parlare di muoverti e di ragionare che entra inevitabilmente dentro chiunque rendendoti eterna.» In risposta ho abbassato lo sguardo e spostato velocemente la testa da destra a sinistra per mostrare il mio più profondo dissenso. Non accetto che mi vengano date certe notizie a meno che non siano seguite da un bacio lunghissimo. Che me ne frega sennò. Che me ne faccio.
Io mi vedo solo come una spettinata che non ha paura di vento e pioggia, una provinciale con le scarpe rotte e il cuore pieno di cianfrusaglie emotive. Sono tutto quello che in questi anni ho visto scorrere fuori dai finestrini: sono il tramonto incredibile che si è acceso davanti a noi quando con il van abbiamo oltrepassato il confine francese e che ci ha fatto sussultare come fossimo tutti bambini; sono la nebbia tagliata a metà sulle strade di Correggio quando sono andata a trovare un vecchio amico scrittore, la neve che sull’Abetone mi ha spiegato dov’è che mi sarei dovuta trasferire e chi sarei dovuta essere per sempre; oppure quando lungo la tratta Berlino – Roma ho pensato che il pilota avesse deciso di farmi un regalo spegnendo tutte le luci dell’aereo per permettermi di vedere meglio quelle nelle case di tutta l’Europa centrale.
Il mio difetto più oggettivo e razionale è che non smetto mai di amare nessuno, sposto solo il sentimento un po’ più in là e poi finisce che tutto si intreccia si accumula si aggroviglia, praticamente ho una matassa di luce ondivaga che a volte mi bussa sulla bocca dello stomaco e mi fa venire da vomitare. È che io con i sentimenti non ci gioco mai perché non vorrei che con tutta la mia sbadataggine io li faccia cadere e rompere per sempre, ci tengo troppo, infondo sono i miei. Allora cerco abbracci che possano canalizzare tutte le energie in un unico luogo, che sappiano aggiustare e preservare, abbracci che possano trasportarmi a Parigi a vedere un film di Truffaut non sottotitolato mentre la pioggia cade dai castagni e le mie scarpe sgambettano sotto il vestito di velluto verde delle grandi occasioni.
Sono una casa calda e confortevole nella quale dimorano tutti i miei amori lontani e ormai da tempo finiti, ci sono pure quelli mai iniziati e quelli che ancora devo incontrare. Sono tutti là e vi farei sentire che rumore fanno; tutti che arrivano entrano escono bussano si siedono permesso prego entri pure, ma mai nessuno che decida di restare di sua spontanea volontà. Sono sempre io l’aguzzina, io la carnefice che stringe e incatena. Spesso dentro questa casa ci cammino scalza per sentire il freddo delle mattonelle che mi ricordano le passeggiate verso chi non mi ha aspettata mai e tengo le finestre aperte anche di notte, persino con la brina glaciale delle notti d’autunno perché spero sempre che in qualche maniera romantica ti arrivino le mie rêveries dalle quali sono ognora abitata e che osservandole con attenzione ti venga voglia di correre per raggiungermi in maniera sghemba, come tutte le cose che mi piacciono di più, per concedermi una requie laconica dentro la quale poter scrivere e ballare solo come mi va.
Guardo fuori dalla stessa finestra dalla quale vedo scorrere il passare delle stagioni e piove, come ogni volta che mi riprometto di fare qualcosa cosa per stare bene: la pioggia è tutto fuorché corroborante, soprattutto per me.
Di fronte al mio tavolo di legno un ragazzo si è appena sentito dire “ci fosse stato tuo fratello avrebbe risolto tutti i tuoi casini” e un minuto dopo l’ho visto piangere dentro la sua tazza di caffè, avrei voluto abbracciarlo perché ho ritrovato quel sentimento che credevo di aver dimenticato nel passato, quello che ho provato per lungo tempo ogniqualvolta mia nonna mi guardava e con voce rotta mi ricordava di quanto avesse sofferto per la mia malattia, quando entrava nella mia stanza e mentre dormivo s’inginocchiava per pregare con il rosario tra le mani. Le ho sempre risposto molto male e adesso che non c’è più mi sento in colpa, avrei dovuto capirla ma che cazzo, riuscirete mai a mettervi pure nei miei panni prima o poi? Alla fine è sempre colpa mia, è sempre stata colpa mia; se mi sono ammalata, se ho fatto soffrire e preoccupare la mia famiglia, se ho rovinato l’infanzia dei molti bambini che hanno visto la loro amichetta senza capelli e con molte occhiaie viola, se non parlo metto il muso e incrocio le braccia sul petto, se non mi arrabbio mai con chi dovrei e se piango perché da qualche parte questo dolore dovrà pur uscire, se non ho nessuno che mi ama e se qualcuno mi lascia perdere perché sono troppo complicata. Tutto ritorna sempre a questa colpa che ciclicamente sento nominare da qualche bocca a me vicina e che sto imparando a conoscere e accettare anche se non vorrei. E non dite che non è così, potete benissimo riconoscere le ferite che mi avete inferto lungo questi anni, anche quelle da me taciute. Vorrei solamente restare immatura ancora per un po’, piangere gridare scriverti che mi manchi alle quattro di mattina ancora gridare mettermi le mani nei capelli e potermi permettere di crollare, delirare, sembrare pazza, non dover ridere per forza e togliermi tutti quei ruoli ingombranti e gravi che mi sono stati affibbiati con il tempo.
Vorrei sbracciarmi e gridare fortissimo il tuo nome anche se ci sono ottocento chilometri tra me e te e che tu riesca comunque a vedermi, a sentirmi e a sorridere per il modo ridicolo in cui mi muovo. Invece arriva sempre quel momento dell’anno in cui “il biglietto d’auguri scrivilo tu che hai fatto Lettere”. Vorrei essere un po’ più stupida, non saper leggere bene e mischiare e confondere le lettere dell’alfabeto, non sapere coniugare i verbi e scrivere male, in maniera incomprensibile. Vorrei non conoscere a memoria L’infinito di Leopardi e non commuovermi ogni volta che leggo ad alta voce La pioggia nel pineto. Vorrei non sapere cosa sia successo nel 1933 e a Berlino vorrei non aver visto le atrocità commesse dall’uomo e vorrei pure non essere cambiata a causa di quel viaggio. Vorrei vivere più in superficie, raccogliere i fiori senza conoscerne le conseguenze, essere meno disponibile e più affabile, dire No molto più spesso ed essere sicuramente meno sincera.
Alla fine tutto quello che riesco a fare è solamente ritornare a tagliarmi la frangetta da sola, bere troppi cocktail come un’irresponsabile, piangere e scusarmi qualche ora dopo cancellando tutti quei diritti che ho precedentemente reclamato, leggere un libro della Mazzucco da capo e bruciare di febbre altissima dopo aver comprato un solo biglietto per il concerto di De Gregori.
Mi dispiace bambina mia, spero riuscirai a fare meglio la prossima volta.