Che fatica.
Si può dire?
Chiedo.
Che fatica.
Non abbracciarti
non abbracciarsi
non toccare
non scendere in piazza
non andare al bar
non chiamarti
non parlarti
non lavorare
non avere ansia
non uscire
non fermarti
non commentare.
Ho capito, va bene,
ma che fatica
si può dire?
Ieri tutti accalcati al supermercato, oggi specialisti e maestri di resilienza. Persone che scappano, ma per dove? Non siamo nati programmati con app per gestire le emergenze, c’è da aver pazienza anche con gli affannati. Fuori il panorama apocalittico non aiuta. Sembra di stare sempre più soli con tutte queste ammonizioni. Cammini in un campo deserto e ti chiedi se stai mettendo in pericolo qualcuno. Non capisci più niente. Chiedi scusa per aver respirato. Non sai dove mettere le mani, i piedi, i sogni, i progetti.
Saracinesche abbassate. Un mese in silenzio a riordinare le emozioni, i casini lasciati lì chissà da quanto. Non posso nemmeno sollevare il telefono. Come stai ho voglia del tuo odore. Mantengo le distanze, rispetto le regole, poi passa. Non posso nemmeno abbracciarti, è vietato. Ma non potrei abbracciarti comunque, che differenza fa? Cammino nel fango di una campagna assolata in una domenica di quasi primavera, resto in silenzio, rispetto le aspettative.
Buon otto Marzo, buone lotte, ragazza. Abbracciati da sola. Non uscire. Non chiamarlo.
Se arrivasse la fine del mondo
vorrei stringerti ancora un po’,
guardarti un momento
preparare il caffè,
sentire la tua voce
ancora una volta
pronunciare il mio nome.
E poi mandare affanculo
anche il ricordo di te.