“No. No. No. Non te lo auguro”. Lo diceva a se stesso, guardandosi allo specchio. Seduto, nella mano destra la tazzina del caffè, nella sinistra un cucchiaino che aveva già girato troppe volte nella bevanda. Il piede sinistro batteva il tempo, un tempo dispari, lento e frenetico. “No, proprio non te lo auguro” ripeteva senza la rabbia della scena di Taxi Driver ma con lo stesso senso di voler rompere il mondo che stava vivendo, e forse, se pur rassegnato, con la speranza di essere davvero dentro la scena di un film. “No, non te lo auguro di sentirti uno stronzo perché litigavi con tua madre convinto che non volesse capire, incazzato perché non volevi capire che lei non capiva. No, no, no, e ancora no. Non ti auguro di ripensare a quando, invece che fermarti a guardare quegli occhi che non ti guardavano, che osservavano lontano, tanto lontano da iniziare a stare in mondi diversi, tu ti incazzavi. Non guardavi. Non capivi. E ti incazzavi perché lei non capiva. E se parlava e sbagliava qualcosa ridevi, la prendevi in giro. No, cazzo. Non te lo auguro. Così come non ti auguro di vivere in quel limbo, in quel tempo d’attesa perenne che ti separa dal giorno in cui tua madre non saprà più chi sei. E quel giorno allora tutti i tuoi rimpianti saranno cancellati dalla sensazione di vuoto, freddo, paura. Ancora più forte, e tremenda, di quando, in uno di quei pochi, pochissimi, momenti di lucidità con quella chiarezza nel parlare che irrompeva tra tante comunicazioni incomprensibili tua madre ti diceva “voglio morire”. Sì, perché quando una persona che ami ha l’Alzheimer tu la vedi sparire giorno dopo giorno. La vedi entrare in un mondo diverso, in un mondo in cui speri stia bene, ma non lo sai. In un mondo solitario perché piano piano si perde la capacità di parlare, e di relazionarsi. Si perde il contatto con lo spazio tempo. E alla fine con i nomi e cognomi, anche quelli di una vita. Quella persona non muore, ma la persona che hai davanti non è più quella che conoscevi. Non puoi averci un dialogo, non puoi più condividere parti della tua vita. Non puoi più litigarci. Un corpo in questo mondo, la testa in un luogo altro e sconosciuto. Sconosciuto anche per la scienza. Non c’è cura. Non c’è soluzione. Non c’è altro che il tempo d’attesa. E il trovar il modo per starle vicino.” Mentre si diceva tutto questo si ricordava di sua mamma, delle mille volte che la sua immensa dignità aveva garantito a lui una vita serena e facile. Si ricordava di come era una donna iscritta al sindacato e per una vita avesse scioperato e lottato per i suoi diritti. Seria sul lavoro. E intransigente nella lotta, se pur dentro le maglie di quella sindacale, tanto da litigare con i delegati. Si ricordava di quando ha dovuto fare le medie serali, perché come figlia più grande nel dopo guerra finite le elementari è andata a lavorare. Si ricordava di quando era preoccupata e lo chiamava durante i mille cortei antagonisti. Si ricordava di tutto. E quello che non ricordava lo scopriva piano piano. Più ricordava più il ritmo del piede rallentava diventando una marcia. “No. Non ti auguro di sentirti impotente e sapere che per una volta davvero non c’è una soluzione e tu non puoi fare nulla, se non esserci in maniera incondizionata mostrando l’amore, tutto, quello mosso anche da rabbia e odio. Quello che tutti i giorni ti fa rifiutare il mondo ingiusto, la stessa ingiustizia che ha colpito, una volta di più, tua madre: una vita a lottare e lavorare per chi aveva attorno, una vita che non le ha concesso nemmeno la vecchiaia perché a 70 anni è esploso l’Alzheimer. E allora davanti all’ingiustizia di una vita puoi metterci solo l’amore. E lottare per la sua felicità”.
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