Pan di Spagna
Qualcosa era cambiato.
Qualcosa nella casa aveva mutato forma, lo sentivo.
Me ne sono accorta la prima volta solo domenica scorsa, appena sveglia. Entrava una luce strana dalla finestra della camera, come se il sole fosse straordinariamente brillante. La luce cadeva sulle lenzuola accendendole di vita nuova. Di colpo quel tessuto liso era molto di più, perché raccontava la nostra storia: 27 anni di vita assieme.
Quel giorno l’appartamento riluceva, le parole suonavano come melodie, le pentole gorgeggiavano sui fornelli, anche i soprammobili impolverati sembravano essersi destati dal lungo sonno che genera la noia.
Le settimane precedenti erano passate lente e lui mi era sembrato particolarmente assente, forse troppo stanco per via del lavoro. Rincasava la sera ed era come se non ci fosse - d’altronde che vuoi farci, dopo 10 ore di turno alla centrale! - ma aveva un’irrequietudine nel petto che non gli dava pace, lo sentivo rigirarsi la notte nel letto e mi metteva pena, tanto che nemmeno io riuscivo a chiudere occhio. Mi sembrava che producesse pensieri densi che restavano impigliati nel mobilio, aleggiavano sul soffitto, nascondendosi nelle ombre lunghe della sera.
Poi all’improvviso quella domenica di luce, quel sentire gioioso, quella voglia di uscire, fare. Di vivere. Proprio quel giorno l’ho visto sorridere.
Sorrideva nella mia direzione e, certo, lì c’ero solo io, ma in realtà sorrideva ad altro. Era con me, nella nostra casa, con il suo sorriso di un tempo, quello che gli accendeva gli occhi e teneva alti gli zigomi. Era lì, tra il tavolo della cucina e il frigorifero, e mi guardava, ma intimamente avevo capito che quelle labbra tirate, schiuse sui denti, non erano per me.
Dovevo tagliare il pan di Spagna per farcirlo, ne avevo appena controllato la temperatura e sentivo tutta quella vita scorrere sui muri, il suo sorriso acceso, stampato in faccia. Quella luce non accettava repliche, sapevo che non ci sarebbe stata un’altra opportunità per me, ero ormai invisibile. Mi stava dicendo che pensava di fare un week end via con Luca, suo cugino, quando presi il filo di nylon dal cassetto. Una corda di chitarra. La usavo già da qualche anno e avevo imparato a tagliare bene le torte, con la dovuta pazienza ottenevo un bel taglio pulito. Non ci pensai su molto, giusto qualche istante, mi assicurai solo di afferrare bene i capi. Gli ero alle spalle, feci fare al filo due giri intorno al collo, stando ben attenta a non tagliarmi le dita e mi appesi con tutta la forza che avevo in corpo. Ci mise qualche istante a realizzare il tradimento, forse lo stesso tempo che avevo impiegato io nel decifrare il suo. Poi reagì d’istinto, si flesse in avanti caricandomi sulla schiena per schiacciarmi contro la parete, ma non mollai la presa e mi gettai di lato, sbilanciando entrambi. Lui finì con il dorso contro il muro, mentre io scivolavo verso il pavimento e poi mi cadde addosso. Ero sotto, le gambe schiacciate dal suo peso. Cercava di infilare le dita sotto il filo per allentare la presa e avevo paura, paura di fallire. Fosse stata l’ultima cosa che facevo al mondo: lui non sarebbe uscito vivo da quella porta. Mentre si dimenava continuai a tirare indietro, ormai praticamente supina, fu allora che arrivò la sua mano. Si avvinghiò ai capelli, strappandone a ciocche, poi aggiustò il tiro, puntando al viso, chiusi gli occhi e scansai la manata. La seconda sberla cascò tra il naso e la bocca, non avevo scelta. Apri i denti e serrai forte le mascelle sulle dita. Non mollai la presa. Il sangue caldo e denso in bocca mi diede la forza per non cedere, una botta di adrenalina per arrivare sino alla fine. Continuavo a ripetermi: “Pochi minuti. È solo questione di pochi minuti.” Perse forza nelle braccia, poi nelle gambe, tentava ancora di divincolarsi, ma lentamente. Mentre si afflosciava, gli arti si facevano pesanti e avrei voluto dirgli tante cose. Qualche scatto, un tremore sparso. Pensavo alle parole giuste da dire, per salutarlo, quando mi resi conto che ormai non si muoveva più. Aprii la bocca, lasciai andare le dita maciullate, ma non riuscii a dire nulla. Non mollai la garrota. Aspettai ancora qualche minuto. Dovevo essere sicura che fosse morto. Poi estrassi il filo di nylon, che era penetrato nella carne, segando il collo in diversi punti. Scivolai lungo il pavimento per liberarmi del resto del corpo e mi rialzai. Andai a prendere il copridivano in sala, un telo leggero di cotone, glielo buttai sopra. Avevo sentito dire che le morti per strangolamento deformano il viso e non volevo vederlo. Le foto le ho viste dopo, sì, quelle scattate della scientifica.
Mi sono fatta una doccia, ho messo i vestiti da lavare, la t-shirt sembrava irrecuperabile con tutto il sangue che aveva buttato dalla mano, ma volevo provarci lo stesso. Prima l’ho sciacquata a mano con acqua fredda e saponetta di marsiglia. Ho lavato il filo col sapone, tagliato il pan di Spagna e farcito con la bagna di marmellata. Mi sono fatta un caffè con una fetta di torta e poi ho chiamato il 112.