Nel 1904, il dott. Ivan Pavlov veniva insignito del Premio Nobel per la medicina.
Nell’autunno del 2010, la mia famiglia decideva di accettare le mie insistenze e adottava la gattina che da quasi un mese gironzolava nel nostro giardino, dandole il nome Mira, in onore di Madeleine Slade, detta Mirabehn, donna inglese, ambasciatrice, consigliera e intima amica del Mahatma.
Alla fine del luglio del 2019, mi accaparravo l’ultimo posto libero in un’auto incaricata di un transfer dall’Isola di Ortigia all’aeroporto Fontanarossa di Catania.
Il dottor Pavlov si divertiva a giocare con il suo cane. Lo aveva abituato ad avere da mangiare solo dopo aver suonato un campanello. Il cane, ogni volta che sentiva il campanello, iniziava a sbavare. Ben presto Pavlov scoprì che era talmente tanta l’abitudine di mangiare dopo il suono del campanello, che il cane sbavava anche senza che arrivasse del cibo.
Mira è una gattina adorabile. Non sappiamo da dove arrivi, ma il fatto che sia una persiana fa dire a tutti che sia semplicemente scappata da una casa troppo affollata. Pare che i persiani siano gatti molto snob. Mira è un po’ snob, soprattutto nell’aspetto elegante e nel muso costantemente imbronciato. Ha un naso minuscolo e la bocca non è certo adatta a cacciare topi, al massimo lucertole, per gioco. È un gatto da salotto. Questo non le impedisce di razzolare liberamente tra le siepi e i giardini del vicinato come una vera teppista.
Oltre ai gatti più grandi di lei, Mira ha un solo limite: le scarpe grosse. Giardinieri, muratori, io stessa quando porto gli anfibi. Ne è terrorizzata, scappa a nascondersi e si fa trovare solo quando gli scarponi sono spariti e può riappropriarsi dei suoi spazi.
Io non ho paura di molto e tendo a dominare il mio corpo. Ho la mia età, le mie esperienze, le mie sicurezze, ormai. Ma il mese scorso ho scoperto di avere un limite: quella puttana di un vulcano.
Sì, perché l’Etna è femmina e mi ha dato la più grande delle lezioni, mentre stavo pigiata sul sedile posteriore di una macchina a noleggio insieme a due milanesi che parlavano di festival.
È stato un insieme di fattori, non solo il vulcano. È stato essere sul sedile posteriore di un’auto, sull’autostrada verso l’aeroporto e vederla arrivare, l’Etna. Che di per sé lei non mi ha mica fatto nulla, eh.
Solo che quella situazione io l’avevo già vissuta e il mio cervello l’ha ripescata nel cassetto delle cose da non ricordare. E ha pensato bene di metterla in circolo nel corpo senza avvisarmi, senza che sapessi il motivo di quel che mi stava accadendo. Il respiro che manca, gli occhi che si appannano, il cuore che salta un battito.
Provi a fotografarla, sembri una bimbominkia che fa le foto al vulcano dalla macchina, sticazzi, magari lo fermi, qualunque cosa sia.
No, non funziona.
Il respiro che manca, un viaggio indietro di dieci anni, tua nonna che ti risponde al telefono e tu che sai che ora, ora che lei ha risposto, l’unica che manca al telefono è tua madre e lei non ti risponderà.
Il cervello del cane lo ha abituato ad aspettarsi la cena dopo un trillo. Il cervello di Mira le ha insegnato che è meglio scappare davanti alle scarpe antinfortunistica. Il mio cervello mi ha insegnato a temere quella puttana di vulcano di fianco all’aeroporto perché al di là del volo mi aspettano cose brutte.
Fottuto Pavlov.
Il tuo cane non ha fatto in tempo a imparare che stronzo che fossi e che poteva prendersi da mangiare da solo. Il mio gatto non saprà mai che il giardiniere è il più tenero dei gattari.
Io, in dieci anni, ho imparato così tante cose che quel vulcano mi può fottere per 10 minuti, al massimo.
Poi mi metto a parlare di festival anche io, magari balbettando, ma tenendo il punto. E quell’aeroporto in cui il mio mondo è crollato per sempre e io ho dovuto fare i conti con le macerie di me stessa, ora non mi fa paura. Anzi. So per filo e per segno come si fa ad uscire dal gate e fumare una sigaretta alle partenze mentre aspetto l’aereo. E godermi l’ultimo sole siciliano dell’anno, senza magoni, con una serenità forte e potentissima. Con una consapevolezza nuova, con la fora di chi sa di essere frangibile ma anche di sapersi ricomporre. Persino meglio.
È il kintsugi giapponese, l’arte di riparare i vasi colando oro fuso nelle crepe.
È il fattore umano, che ci fa imparare dalle esperienze, siano esse vittorie o mazzate incredibili.
Fottiti, Pavlov.
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