Preghiamo un po’
per stare vicine in questa catastrofe
accendo la candela e mi brucio la mano
e te la do
e canti piano.
È che il tuo è un Padre strano:
ti punisce perché mi ami e io solo oggi
mi sono unita a te
(a rendergli omaggi).
E allora quello che vogliamo lontano
ce lo serve qui
sul palmo della mano.
Lo sento già che non saremo più uguali
fuori da questo cassonetto ripieno di domani.
Scrivere “la tua mamma”
crea ricordi vani
qui, mentre piango e mi tormento.
Ma lei è anche un po’ la mia
e di nuovo a Cloto
il filo scivola via.
Non riesco a pensare ad altro
che a tutto quello che mi ha dato
senza niente in cambio.
Io e te conosciamo la follia
ma la chiamiamo lavoro, parentela, sentimento.
È oggi che vedo
quanto mi sia vicina da sempre
la nostra maledizione.
È solo il suo nome
diverso che mi ha illusa
che fosse lontana.
Calo le maschere:
dico che anche io
a volte amo
corro
piango.
Ogni parola è più semplice della prima,
una parola più diretta dell’altra
come le sue, la sua immensa quinta elementare.
Come il suo Dio Padre
che ci provo davvero (per lei) a raggiungere
che poi mi ricordo
che è un assassino.
Ma pure Antigone – penso-
Edipo
l’ha amato da vicino.
Io allora forse voglio quest’allucinazione
di nuotare nel miasma,
l’odore del suo fantasma.
E il presagio della nostra generazione
sarà dolce unghia sulla pelle
dei miei figli,
delle mie figlie più belle.
(nota al titolo che non spiega né il testo né il titolo)
Le poesie le scriviamo un po’ tutti con modalità e intenzioni diverse. Io ho una discreta speranza che ciò che scrivo e decido di condividere con altri sia prima di tutto una piccola immagine di bellezza e immedesimazione. Poi però faccio la piccola classicista pignola e mi metto a sperare che si veda come la gente morta e le piccole immagini che loro hanno gettato a me si nascondano tra le mie parole. Perciò ora ecco una serie di frasi lunghe e involute che non spiegano niente: phthonos theon è un’espressione che vuol dire “invidia degli dei”. Mutuata dall’opera di alcuni scrittori dell’età greca arcaica (quindi tipo dopo un periodo buio che alcuni hanno chiamato medioevo ellenico, che come il medioevo normale è vittima di inutili pregiudizi su una presunta scomparsa della cultura, e prima delle guerre persiane) tra cui un tale Erodoto che si dice abbia inventato la storiografia, l’espressione si usa per indicare il sentimento che gli dei proverebbero nei confronti degli umani ogniqualvolta essi ottengano successi che per un attimo li elevino dalla propria mortalità. La condizione base dell’uomo greco arcaico è la sua consapevolezza rassegnata di impotenza. C’è stata poi gente di questo periodo che ha “moralizzato” lo phthonos theon, dicendo più o meno che chi veniva punito dagli dei per i suoi successi evidentemente se lo meritava, perché compiva il peccato peggiore di tutti: quello di hybris, l’arroganza manifesta. Un libro che si chiama I greci e l’irrazionale, che ha per sempre cambiato il modo di vedere e studiare il mondo greco, percepito erroneamente per secoli come oasi del trionfo della razionalità, tratta approfonditamente di questo. L’autore ne parla dicendo che quando l’uomo incontra il dolore proietta nel cosmo la sua aspirazione alla giustizia sociale, e quando la sua voce gli ritorna come eco condivisa, che promette una qualche punizione di colpevoli, si sente finalmente rassicurato.
A un certo punto arriva l’età classica, arriva Euripide, testimone del crollo di una morale tanto strana quanto unica: “non è più fine comune degli uomini fuggire allo phthonos degli dei”.
Ma è davvero meglio così?