Mi porto dietro la storia di una parte di mondo e del suo coperchio, un cielo di nuvole bugiarde. Questa terra, stretta da asperità, è messa all’angolo da un mare solcato da viaggiatori che ignorano il sale nelle piaghe. Tra melodie inascoltate, la mia è silenziosa. La narrazione di una stella non le ha dato uno strumento, nemmeno usato, la tessitrice non un filo nella trama. Solo una frazione del retroterra che mi precede può essere sfiorata dallo sguardo, ma è la conoscenza irriflessa dell’attimo.
A me, forestiero, arrivano in dono da questa città solitudine e ferocia. Non so a quale costa o collina appartengo. L’essenziale non è il versante in cui ci troviamo. I versanti appartengono allo stesso mare come lati diversi di una medesima figura, l’umano. Appartengo a una riva, come loro appartengono a una riva. Tutti apparteniamo a una riva che per gli altri è altra: questo ci unisce. Mio malgrado mi trovo rivale di gente che non conosco e alla quale non voglio fare del male.
Essere considerati diversi è una violenza: atmosfere scheggiate, allontanamenti corporei. Il silenzio dell’indifferenza o il fragore della percossa. Calci, sputi e altri animali costituiscono il repertorio per un nome contrario alla lingua di questa città. Un particolare storico ha senso nella vita di un uomo. Un frammento di questo naufragare – la storia – è funzionale a una valutazione che può essere infame. Una minuscola, tragica infamia. È il profumo di un fiore amaro, che lascia dietro sé il ricordo deluso di un possibile prato, in cui come i fili dell’erba si è tutti uguali.
Alcuni bambini pensano che i forestieri siano indiani. Devono averglielo insegnato i genitori. Fanno bene. È vero. Sono indiani. L’aver compiuto due passi per le strade del mondo, invece che rimanere nella tenda, fa di me un forestiero? Non sono indiani a se stessi i membri della tribù barricata in città? Discriminare non è considerare l’altro inferiore, ma considerarlo diverso. Mi sento uguale agli altri, non mi accorgo di essere diverso: questa è la logica dell’intolleranza. È contraddittoria sul piano teorico, nella realtà è violenza. Cos’è più vero del dolore? Ti ricorda di essere al mondo, che gli oggetti e le persone sono ostili. L’inimicizia, che attraversa il reale come il primo soffio vitale, insinua un dubbio che tracima dagli angusti spazi del pensiero diurno: da dove arriva tale malevolenza? Quel soffio, narrato come magico, è il fiato ubriaco di Dio. Non respiro, ma esalazione che ha reso il fango animale, piuttosto che anima.
Insinuarono che andassi in giro con un coltello. Ero solo un bambino. Non sapevo neppure tagliare il pane. Pisciarono sul mio cappello, stropicciato come un corpo zuppo.