Pioggia
Rombi di tuoni preannunciavano per molti l’inferno, una pioggia forte. Raffiche di vento sbattevano le persiane di legno con violenza, il cielo era pronto per sfogarsi. Lei era seduta sul letto, leggeva un libro di avventure. La pila sulla fronte le illuminava le pagine.
Il temporale le metteva calma, avrebbe voluto uscire e prendere tutta l’acqua che nel frattempo stava iniziando ad entrare dalla finestra del terrazzino in cucina. Le luci della casa erano tutte spente. Camilla invece, sottolineava testi alla scrivania, asciugava lo spirito al caldo del suo maglione fatto a mano. Erano a casa solo loro due, nel silenzio della pioggia che cadeva in tutte le direzioni che il vento le regalava. Ci avevano messo un po’ a trovare quel luogo accogliente che per un po’ avrebbero chiamato casa.
Pensava a quei lunghi giorni in cui era costretta a letto, la grande fatica delle medicazioni in ospedale. La solitudine a cui il dolore la costringeva. Passavano e se ne andavano molte persone in quella casa eppure nessuna di loro che cercasse lei. La calma che l’ En le concedeva era intervallata dalle attenzioni di Camilla, dalle sue poche parole rotte dal sonno di fine giornata.
Faceva delle foto ogni giorno al suo volto per vedere come cambiava. In alcuni aveva notato di avere le lacrime agli occhi. Portava piaghe sul corpo e nello spirito. Era priva di immaginazione, circondata di oggetti che le ricordavano come era vivere prima. La degenza non le lasciava spazio se non per sentire il dolore e il peso della privazione del dialogo. Il dolore del cuore le impediva di lasciare spazio ad altre storie, i romanzi degli altri. Aveva perso molto peso.
Sarebbe finita? Le sembrava impossibile.
La pioggia scorreva come un torrente in piena; non si sentiva alcun rumore se non lo scrosciare dell’acqua che riempiva le grondaie e scavava torrenti per le strade a perdita d’occhio. Gli alberi si piegavano con la forza del vento. Lei stringeva forte il cuscino con la parte sinistra del viso, le ricordava quando appoggiava delicatamente il volto sulla parte destra del viso di lui mentre dormiva. Un ricordo lontano, un vuoto incolmabile. Ogni tanto emetteva un gemito di dolore: migliaia di spine che le trafiggevano il corpo, a partire dalle gambe martoriate. Quando la sentiva, Camilla si girava verso il suo letto con gli occhi colmi di tenerezza. A volte si avvicinava ad accarezzarle il capelli. Era insensibile a qualsiasi gesto di affetto o empatia.
Gli unici momenti della giornata in cui si distraeva erano quelli dedicati all’igiene personale. Lavarsi un pezzo di corpo alla volta facendo attenzione a non bagnare le fasciature, così spesse eppure così delicate. Richiedeva un sacco di energia e disciplina: quando finiva tutta la procedura che aveva collaudato nei giorni, era talmente sfinita da crollare a letto vuota, priva di qualsiasi spirito creativo.
Dopo venti giorni circa le tolsero tutte le bende. Non le misero altro. Le gambe erano a pezzi, piene di croste e di sangue rappreso. Doveva sostenersi con le stampelle ancora per un po’, ma la giornata luminosa le dava speranza. Camilla l’aveva accompagnata in ospedale per quella che si era rivelata l’ultima volta di medicazioni. La riempiva di parole incoraggianti mentre lei si lasciava scorrere le auto e gli edifici davanti agli occhi, dal finestrino alla luce del mattino. La ascoltava in silenzio assorbendo tutte le vibrazioni sonore che emetteva la sua voce come un balsamo emolliente. di tenerezza, di complicità.
A volte la vita decide di non finire.
A volte si è costretti a dire a sé stessi meno male.