Portare a spasso i pensieri
Non so perché mi fossi fermata proprio lì. La laguna lasciava troppo spazio ai pensieri e il verde diventava quasi fastidioso, un silenzio che un silenzio che -con mille lacci- tirava fuori dal cuore tutto il dolore ancestrale che l’individuo nella sua solitudine si porta dentro ma non ne ha ancora compreso tutte le cause e i collegamenti.
Volevo far vedere a Leonardo i gatti abbandonati a loro stessi che hanno preso possesso di parte di quel terreno vicino alla laguna, ancora vivido dei segni della fabbricazione delle barche, con i tronchi che segnano il percorso fino all’acqua salmastra. Un gabbiano sbatteva le ali incessantemente cercando di rompere una preda morta da chissà quanto, da quando poi. Dura come un sasso. Forse una testa di pesce.
Forse la ragione non era poi quella in fondo. Volevo godermi il silenzio con il mio vecchio amico, ormai sempre più distante da me, a causa di un mondo veloce che richiede spostamenti, cambi di lavoro rapidi, cambi di mentalità ancora più vertiginosi. Lì, su quel ponte cercavo di capire se vi fossero ancora certezze, se la lontananza fisica che percepisco da ciò che amo e la mia solitudine fossero collegati da una grossa corda da ormeggio legata a otto.
Non c’era nulla di importante da dire in quel momento. cercavo solo la vicinanza di due cuori ormai separati da vite diverse, da scelte diverse. Io. risucchiata in questa città che ti travolge, che sa amarti come un amante narcisista per poi vomitarti fuori senza un grazie, voltandoti le spalle con un palo per i selfie o una reflex tra le mani. Poi c’è Milano, c’è il trasferimento, ci sono tempi diversi da gestire, ci sono strade diverse da percorrere, ci sono delle scelte da compiere che non permettono di potersi voltare indietro. Ci sono mille città, mille mila (mille mila lo dicono in tv, meglio usare migliaia di) persone che stanno cercando il loro posto, o almeno un posto che potrebbe avere la parvenza di essere loro, (punto) me compresa.
Sarà che quando giro per questa città sono costretta a guardare le persone negli occhi. Conosco i rituali delle passeggiate canine del vicinato a memoria.
Mi è stato detto: fuck ricordi. Fanculo il quartiere in cui siamo cresciuti, non conta più niente. Voglio stare qua una settimana, bere, parlare con le persone e poi tornarmene a Nottingham. Tre anni fa il giorno prima del suo trasferimento abbiamo pianto in silenzio in uno dei nostri posti preferiti del quartiere della nostra città natale. Fuck. Vengo io lì. Non tornare. Non guardare indietro, guarda domani.
Ho bisogno di cure. Ho bisogno di lacrime che non so dove pescare. Ho bisogno di vegliare sul mio corpo che non tratto come vorrei, lo desidero, lo necessito. Ma sembra impossibile come cercare di pescare una stella con una mano. La mente è contaminata da quelle sensazioni di insicurezza che ti può dare una balaustra traballante sull’acqua. Poi alzi la testa e dici fuck anche tu e tiri avanti cercando di dare un ritmo alla tua fottuta vita. Di amare quello che ami e di andare avanti a farlo perché hai il cuore colmo. Voglio avere la libertà disprezzare l’incertezza e invece è diventata la mia amante silenziosa, che mi fa fremere il cuore la notte, che mi costringe al delorazepam.
Leopardi diceva che il “forse” è la parola più bella della lingua italiana, perché apre le porte all’incertezza, apre le porte all’infinito. Io ci voglio credere e voglio vivere nel flusso di mille strade che di mette davanti la vita. Io, gli errori del caso voglio farli tutti.
Ma la verità è che ho una paura fottuta e una certezza la vorrei Giacomo, un po’ come la tua ginestra che non teme la lava. Una sola anche piccola, che sia solo la necessità di sentire ogni tanto la voce di mia madre che mi dice ti voglio bene, lei, che sembra non abbia paura di nulla e che ha stretto forte le mani di mio nonno da sola fino al suo ultimo esule ed esile respiro.
Ad un certo punto mi sono detta basta e ci siamo spostati dal territorio dei gatti, camminando spediti verso la laguna aperta. Sembrava si potesse toccare San Michele con una mano, afferrare tutta l’isola dormiente di morte, che è eterna ed è l’unica: banale, banalissima certezza che esula dalle interconnessioni umane. Alle nostre spalle c’era un bambino tedesco parcheggiato lì dalla famiglia, andata a perlustrare a casaccio la zona di Madonna dell’Orto, mentre lui privo di curiosità preferiva stare seduto sui gradini del ponte a giocare al cellulare.
Che bello Leonardo, Matilde ti ama, anche Luca mi ama, ma non me lo dice mai. Dice che è superfluo, non è necessario. È scontato ma io vorrei che me lo dicesse, magari quando siamo a letto, da soli, nudi, in mezzo quelle dannate ore che per il momento ci è concesso di stare insieme. Viaggiamo tutti come mosche impazzite, prendiamo treni, facciamo videochiamate, facendo finta di toccarci le mani dallo schermo. Siamo in un posto e in altri dieci contemporaneamente. Abbiamo un piano, ma oltre al piano A ne abbiamo in serbo migliaia che si mescolano ai nostri sogni in un turbinio confuso, come l’interno di una casa di farfalle.
Pensavo, che in realtà una certezza l’ho sempre avuta, Leonardo. Sono i libri. Ma che cazzo di certezza ti danno i libri? Di vivere mille storie lasciando perdere la tua, di farti contaminare da mille cose, di arrivare a conoscere un sacco di idee, di perlustrare, di essere curiosi. La letteratura dà, la letteratura non toglie. Ma di questo nel concreto che me ne faccio? Scelgo in che bolla entrare quando voglio. Però vorrei che le bolle fossero cosa viva, antidoto alla solitudine e amore per me stessa. Questo l’ho sempre voluto ma non l’ho mai realizzato appieno.
Ci sono lavori da trovare, da fare tutti i giorni, c’è da portare il soldo a casa per una propria autonomia. C’è il distacco dal nucleo famigliare. Fuck il passato, nel nido non si torna. L’amore negli occhi di mio padre ora lo devo alimentare io, devo far bruciare il fuoco, non devo farlo spegnere. Ho paura. Una paura devastante che prende lo stomaco, che schifa i contatti fisici ma allo stesso tempo li agogna come acqua nella calura più torrida.
Leonardo continuava ad esprimere la sua malinconia per il fatto di non vivere più in questa città, io volevo e voglio solo scappare da qui, non voglio essere inghiottita da un’amante narcisista come lei. La malinconia come il dolore servono alla maturazione, alla crescita, al rinforzarsi del corpo e dello spirito. Di questo ne sono consapevole e per questo continuo a lottare, anche se non mi piace vedere la vita come una battaglia. Mi piace vederla come un flusso d’acqua, dove talvolta stai sulla superficie ma molto spesso sprofondi tra le correnti trattenendo il respiro, sentendo nel profondo dove nascono le cause della vita stessa.
L’ho portato in un vivaio li vicino, sapevo non che non c’era mai stato. Ci siamo goduti il silenzio tra le piante della cooperativa sociale, abbiamo visto i pesci nel laghetto artificiale e tutte le piante in fiore, mentre un vecchio cane dormiva al sole.
Ero stanca, ho condotto delicatamente Leonardo attraverso una conversazione leggera verso zone più affollate, ho svolto una commissione, avevo caldo e freddo allo stesso tempo. Sentivo Leo caldo e freddo allo stesso tempo: così ansioso di mangiarsi la vita, mi ha fatto bene al cuore e allo spirito. Siamo passati da Giada, la mia parrucchiera, che da sotto le sue sopracciglia viola mi ha detto: “Ibiza xe bea, ma come isola, no pa far merda, nde se podè parchè i xe stà sinque giorni da papa.”
Era per aspettare un po’, temporeggiare, prima che Leo si avviasse verso la stazione. Volevo fargli vedere un po’ di quello che vivo qui. Forse.
In Lista di Spagna gli ho detto che mi sarei fermata li, non lo avrei accompagnato a Santa Lucia, non lo avrei fatto. L’ho abbracciato forte, gli ho augurato il meglio per l’inizio del suo nuovo capitolo di vita a Milano. Leo mi saluta guardandosi in giro: “ci vedremo qualche volta sai Rebe, non ti preoccupare, mi dispiace che non siamo più sempre insieme, ti voglio bene.”
L’ho lasciato andare via, mi sono accesa una sigaretta “dedicata all’ansia e ai buoni propositi” e con gli occhi spenti mi sono avviata verso casa. Tra la folla, le scolaresche e i bastoni per i selfie.